“Le isole di Norman”: recensione del romanzo di Veronica Galletta

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Le isole di Norman presenta una trama coinvolgente: Elena percorre in lungo e in largo l’isola di Ortigia. Ne osserva le meraviglie e ne subisce le contraddizioni. La bellezza dei luoghi è ormai la cariatide di un mondo passato che tende a ritirarsi su sé stesso; la nuova fase della sua esistenza, che la protende verso l’esterno, a guardare da una piccola finestra la vita che avanza, le dona un’amara consapevolezza. Suo padre vorrebbe che si trasferisse, per essere più agevolata con l’università, ma lei non vuole, ha delle cose in sospeso a cui non può voltare le spalle. Spesso sale su nella stanza della madre. Pile di libri seguono un ordine che da alcuni anni l’ha incuriosita. Le assenze oblique della donna le lasciano un vuoto che lei ha bisogno di colmare in qualche modo. Così Elena tenta di dare un ordine geometrico a una confusione interiore che è inestricabilmente legata agli eventi della sua vita esterna. Disegna delle mappe, seguendo lo stesso criterio organizzativo utilizzato per la battaglia navale e in ciascuna casella, con numeri e lettere che si incrociano appositamente in punti specifici, vi inserisce dei luoghi reali che appartengono all’isola di Ortigia.

Un giorno la madre scompare, e il padre, ex militante del Partito Comunista che insieme al suo amico Filippo ancora spera in una rivalsa, reagisce in un modo che indispettisce Elena: inizia a friggere melanzane, ogni giorno, come a onorare un rito propiziatorio. Le mappe hanno un ordine preciso, Elena ne è sicura, come l’ordine preciso con cui la madre ha ammassato i libri nella sua stanza. Non può fare a meno di vedervi un legame, un punto luminoso come via d’uscita, un codice da decifrare grazie al quale lei riuscirà a trovarla.

Narrazione remota

Il romanzo scritto da Veronica Galletta, pubblicato da Italo Svevo Edizioni, si riconosce per la capacità di circuire il lettore. Il colpo di scena, elemento preponderante dell’opera, agisce in maniera inusuale, ed è tanto silenzioso quanto efficace. La mano dell’autrice appare benigna, carezza gli occhi di chi legge e li accompagna durante il lungo tragitto di pagine misurate, fino a quando non scompare e ci si ritrova da soli, in mezzo a un’architettura lasciata nella penombra. Le isole di Norman si caratterizza per una narrazioneremota“: l’azione fisica dei personaggi non si pone al principio delle scene ma rappresenta il punto di arrivo. Al fulcro necessario dello svolgersi degli eventi si arriva partendo da lontano, assaporando le sensazioni, le descrizioni dei luoghi e i ricordi. Le pagine sono come un mantello che ci viene adagiato sulle spalle, e soltanto alla fine ci accorgiamo di esserci finiti dentro. 

La storia imbocca due strade parallele fortemente interconnesse tra loro, sciabordando il lettore tra passato e presente, e vengono completate da un legame affettivo tra due giovani e un segreto maledetto. È qui che risiede il significato essenziale del titolo: le isole di Norman sono un solco indelebile sulla pelle di Elena, con il quale lei deve imparare a convivere senza tuttavia conoscerne l’esatta causa. Quello che le rimane è soltanto un’immagine sfocata, subitanea, che la assale alle spalle come un cane feroce e poi corre via svanendo nell’aria. Rivede sé stessa da bambina in una stanza, dove cade e una pentola d’acqua bollente le brucia tutto il corpo. E l’unica cosa che ricorda sono quegli orribili occhi marroni che la fissano.