si dice

Si dice “ò fame”? E qui vi voglio…

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Si dice? Si dice o non si dice, eh?

Occhio che la risposta vi lascerà di stucco.

E siamo arrivati finalmente a questo punto primario. Oh, quant’è che l’agognavo! Oh, quanto l’ho desiderato. O no?

A muso duro, via

Chiariamo subito il punto di vista di chi scrive. Severo ma giusto, come si suol dire.

La h bisogna saperla usare. In qualunque situazione, sia chiaro, ma in particolar modo quando essa è indicativa del verbo avere.

L’uso consapevole di tale lettera muta è base, per noi popolo del sommo, della capacità comunicativa. Se non sai esprimerti non sai neanche pensare, se non sai pensare non puoi fare niente.

Un muro, ma non tra i popoli

Noi noi chi? Boh pertanto metteremmo l’uso della h al pari di un muro. Prima del congiuntivo, dei pronomi, prima ancora della consecutio temporum: se tale muro non riesce ad esser superato non deve essere concesso l’accesso a nessun corso, a nessuna università, a nessun lavoro.

A nessuna scuola media.

A nessun voto.

Fino a che questa cosa non si impara, la persona in questione non dovrebbe uscire dalle elementari. My two cents, eh.

La mutina

E dopo aver scatenato la bagarre entriamo nel vivo. Immagino tutti conoscano la storiella della mutina, questa lettera diversa dalle altre che non riusciva a produrre alcun suono, ma tanto importante da riuscire a dar forza alle altre.

È esattamente quello che questa lettera è. Rappresentativa del verbo avere (ricordiamo che tutta la grammatica italiana si costruisce grazie all’aiuto -l’ausilio- di essere e avere), il suo utilizzo è talmente tanto semplice (e fondamentale, e obbligatorio) da lasciar veramente presumere ci sia qualcosa che non va in chi non sa, o non vuole, usarla e giù improperi.

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Signori, la h

Per essere una lettera che non ha suono, ha comunque un peso fondamentale sulla consistenza di una vocale, singola o di apertura di parola. Ha, ho, hai, hanno, tutti verbo avere, sono profondamente diversi da a, preposizione, o, congiunzione, ai, preposizione articolata (o anche ahi!, interiezione), anno, sostantivo.

Le regole

Ce ne sono diverse ma poi alla fine dicono tutte la stessa cosa.

La prima è che se c’è il verbo avere ci vuole la acca. Davvero, è troppo semplice: essere É, così, da solo, senza nulla. Basta a se stesso. Avere ha la H. È avere, quindi ce l’ha.

Poi: are, ere, ire, la mutina fanno sparire. Che significa? Semplicemente, che le tre coniugazioni all’infinito dei verbi italiani inibiscono la presenza dell’h, perché sottintendono una condizione non di possesso:

Mi metto a mangiare.

Mi accingo a bere.

Vado a dormire.

E vediamola anche più difficile

Laura ha fame quindi va a mangiare.

Qui c’è tutto. Ha fame, la possiede (la tiene, per usare un pertenopeismo): qui tuttavia, giustamente, il verbo avere non funge da ausiliare alla fame, semplice complemento oggetto (ha, cosa?, fame), svolgendo quindi quella che si definisce funzione propria.

Dopodiché Laura va a mangiare. Il verbo è va, e l’infinito di mangiare (are) ce lo sottolinea. Quindi a non è verbo avere ma semplice preposizione propria, e pertanto non ha la h

Ancora più difficile! Senza mani!

Laura aveva fame quindi è andata a mangiare. Ha mangiato un panino senza mani. No, scherzo…

Intanto, vediamo che la h appartiene solo al presente del verbo avere. La coniugazione al passato (aveva) l’ha tolta di mezzo se leggo haveva m’incazzo.

Continuiamo a vedere che la presenza dell’infinito (are, ere, ire) colloca il verbo prima della preposizione, e quindi, appunto:

Il verbo è altrove (è andata), quindi quella non può essere una ha (evidentemente a) di avere.

Il verbo è altrove (è andata), quindi quella a non può essere altro che una preposizione.

Curiosamente, anche è andata è la struttura di un verbo ausiliario (essere+participio passato).

Infine, ha mangiato è effettivamente un verbo avere usato nella sua funzione ausiliaria, sottolineataci anche qua dal participio passato di mangiare.

Altre facili regole

Quindi, l’infinito non vuole la h. Pertanto se ogni frase che dovrete scrivere provate a pronunciarla come l’avrebbero detta gli indigeni di vecchi film e fumetti

Io avere fame

allora io ho fame si scriverà con la h.

Se invece nello stesso modo la frase non funziona

Io sono avere casa

allora io sono a casa si scriverà senza la h.

(Questo esercizio si è basato sulla sostituzione del suono vocalico con l’infinito del verbo avere. Se invece si preferisse sostituire il verbo stesso della frase con lo stesso infinito del verbo avere

Io avere a casa

Appare evidente che la frase NON ha comunque senso, segno che no, non è questo il caso in cui va usato il verbo avere. E quindi, di nuovo, la h non ci va).

Oltre al già citato caso dell’are, ere, ire, inoltre, c’è anche

uto, ato, ito, l’acca ci mette il dito

(nei casi ovviamente in cui il verbo abbia l’ausiliare in avere: ha bevuto, ha mangiato, ha sentito; e contrariamente agli infiniti a bere, a mangiare, a sentire, ed all’ausiliare in essere), che abbiamo anche già visto:

Laura ha avuto fame quindi è andata a mangiare.

Ha avuto fame.

È andata a mangiare.

È chiaro vedere come le regole si completino a vicenda;

E ancora

Risponde a domande tipo dove, come, quando, chi, a chi, a che cosa? Allora la h non ci va.

Vado (dove?) a casa.

Ancora

Si può sostituire con oppure? Niente h!

Mi ascolti o no?

Il caso con colpo di scena!

Siccome le lingue sono strumenti vivi e mutevoli, però, l’h ha anche provato a sparire. Da quando, nel 1691, il vocabolario degli accademici della crusca ha stabilito che la lettera h vada mantenuta solo nelle 4 forme del verbo avere per poterle distinguere dalle omofone (prima erano molte di più le parole che iniziavano con h in italiano), definendo di fatto un’eccezione, non in pochi hanno cercato di toglierla di mezzo, principalmente distinguendo le omofonie per mezzo di accenti (ò, ài, à, ànno), arrivando anche a duri scontri formali. Nell’Ottocento i letterati Pietro Fanfani e Giuseppe Rigutini proseguirono pesantemente l’uso dell’h, mentre il loro pari Policarpo Petrocchi preferiva le forme accentate, forte anche della spinta dalla Società Ortografica Italiana, che nel suo congresso del 1911 avanzò proprio questa forma.

La controversia

La controversia è proseguita per tutto il periodo compreso tra le due guerre: la rivista Critica fascista di Giuseppe Bottai usava il verbo avere senza l’acca, la quale era normalmente bandita anche nelle scuole elementari.

Nel dopoguerra

Nel secondo dopoguerra l’uso delle forme accentate, considerato quindi normale nel periodo, andò sempre più rarefacendosi, fino al verificarsi della situazione attuale nella quale le forme con l’acca sono quelle insegnate nelle scuole e indicate come corrette nelle grammatiche.

Ma anche dopo

Tuttavia la questione si è trascinata veramente molto a lungo anche nel secondo dopoguerra: nel Dizionario Bompiani delle Opere e dei Personaggi (recentemente ripubblicato anche in versione elettronica su CD-ROM) l’editore sceglie questa soluzione per indicare le quattro voci verbali. Scelta che, afferma in un suo scritto, avrebbe portato al risparmio di circa un centinaio di pagine. Ciò implica, per la grammatica, che attualmente le forme con la h sono senz’altro le più diffuse e quelle indicate come corrette dai grammatici e dai linguisti: nella Grammatica di Luca Serianni si riporta che le forme à, ài, ànno e ò oggi appaiono grafie non certo erronee, ma solo di uso raro e di tono popolare.

Viene tuttavia riportato che non poche persone ancora le usano, dato che è emerso che negli anni Sessanta ancora qualche scuola elementare le insegnava.

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Le altre h

La h esiste anche in altri casi, nella lingua italiana. Ci sono le già viste interiezioni, nelle quali potranno tranquillamente ricadere anche ho!, ah!, eh!, i fonemi delle risate, le h aspirate, la c dura e chissà quante altre acca che mi sto dimenticando.

Ma c’è tempo…


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