Uomini in rosso di John Scalzi – Recensione

Fonte foto: The passion of creation, di Leonid Pasternakm.

Oggi scuola di scrittura

Prima di parlare di Uomini in rosso di John Scalzi, facciamo una piccola premessa.

Nel blocco dello scrittore l’autore non riesce a produrre. Chiunque scriva prima o poi lo prova, generalmente arrivando a trovare soluzioni fantasiose per superarlo.

La quarta parete è un muro immaginario posto di fronte al palco di un teatro (le tre pareti all’interno delle quali una storia prende vita), dalla quale il pubblico osserva la narrazione. Per estensione, quarta parete è la parte del pubblico in ogni media, quella oltre la quale i protagonisti non possono vedere, pena il cosiddetto sfondamento della quarta parete: l’abbiamo quando il personaggio si rivolge direttamente al pubblico, o riconosce che i personaggi e l’azione, lui compreso, non sono reali.

In questo caso si parla anche di metanarrazione, nella quale l’autore interviene all’interno dello stesso testo nel momento stesso del suo componimento.

Il MacGuffin è il motore virtuale e pretestuoso della trama: un argomento o un oggetto che pare essere focale (permette alla storia di costruirvicisi attorno), ma che non ha una reale importanza né per la trama né per lo spettatore.

Il deus ex machina, il dio da una macchina, dalla quale parla, appare, e mette a posto qualunque situazione di una narrazione particolarmente articolata e di fatto irrisolvibile. Nel teatro greco classico egli appariva in scena attraverso un apposito meccanismo e sistemava i labirinti nei quali l’autore si era andato a ficcare senza possibilità d’uscita. È una paraculata, ovviamente: l’intreccio resta irrisolto. Oggi non si usa (anche se, di fatto, un buon scrittore può fare tutto quello che vuole).

Parallelo moderno è la legge del camionista, nella quale, data la situazione irrisolvibile, tutti i personaggi si riuniscono per strada, passa un camion e li investe tutti (o qualunque altra situazione che possa farci comunque smettere di preoccuparci di come si possa risolvere la situazione). Al contrario del deus ex machina la matassa non è sbrogliata, ma in compenso non c’è più nessuno a cui gliene freghi qualcosa.

Ecco, ora parliamo di Uomini in rosso.

           Fonte foto: Franco Brambilla, ©2014 Urania-Mondadori.

Il libro

In una vignetta famosa, gli uomini in rosso (o redshirt) di Star Trek si scontrano con gli stormtrooper di Guerre Stellari che, si sa, non beccano un bersaglio neanche a un metro da loro.

«Accidenti, l’ho mancato!», grida il trooper.

«Ahhh, muoio lo stesso!», replica una redshirt accasciandosi. E sì, perché le redshirt devono morire. È la caratteristica di questi personaggi del vastissimo universo narrativo di Gene Roddenberry.

Nella serie classica, infatti, i ruoli sono determinati dal colore delle magliette: giallo, blu e rosso. Giallo, mansione tecnica o di comando; blu, mansione medica e scientifica; rosso, sicurezza e ingegneria. E morte. Sì, perché per aumentare il pathos nelle missioni di sbarco qualcuno moriva SEMPRE. E va da sé che questi non potevano essere i protagonisti della serie, ma quelli presenti in numero maggiore nella nave: le maglie rosse non protagoniste, appunto.

Nella squadra di sbarco c’erano sempre i protagonisti e una maglia rossa. Gli spettatori sapevano già per certo che lui a bordo non ci sarebbe tornato.

Un cliché, insomma. Una macabra alternanza di figuranti nella serie che arrivavano per lo spazio di una puntata e morivano. Tac, stacco pubblicitario, pathos inserito, si riparte con la trama. Un cliché del quale, è giusto dirlo, i disgraziati protagonisti non parevano nemmeno essersi mai resi conto, vuoi perché tra una settimana e l’altra sai quante missioni di sbarco ci sono state senza problemi, vuoi perché non è che ci siano statistiche precise su quale sia la reale dimensione del rischio in queste missioni, vuoi perché ma che ne so, alla fine tutto comunque appariva normale. In fondo le magliette rosse di solito sono i cadetti, i più giovani e inesperti. È ovvio che siano loro a commettere gli errori più fatali (e però li potrebbero anche preparare un po’ meglio ‘sti cadetti, eh!).

Ecco, questo l’antefatto. Il destino degli uomini in rosso è cosa nota. Ma nel 2012 John Scalzi, scrittore e blogger statunitense (un premio Campbell, un premio Locus ed un premio Hugo, queste ultime proprio con redshirt) scrive Uomini in rosso, nel quale pone il punto proprio su tutte quelle cose che ST usava come clichè (non solo le morti: impagabile la macchina deus ex machina, evidentemente mai mostrata sullo schermo, che trova le soluzioni alle richieste più assurde e impossibili per il risolversi della sceneggiatura).

Questi uomini in rosso non sono a bordo dell’Enterprise, no. Né in un’altra nave della Federazione, che anzi nel loro universo neppure esiste. Questo è un universo letterario d’immaginazione (come, anche nel loro universo, è d’immaginazione la realtà di Roddenberry), facsimile proprio di quello di ST. Abbiamo un capitano guascone e risolutore, un tecnico scientifico nell’improbabile ruolo di astrogatore cui capita di tutto ma che puntualmente viene rimesso in piedi per la puntata successiva (vedi la macchina deus ex machina), abbiamo più o meno tutti i ruoli e le metodiche tipiche dell’Enterprise. E soprattutto abbiamo qualcuno (la cui moglie, maglietta rossa come lui, è morta da diversi anni), che si è accorto della questione, redshirt: sa che la cosa accade puntualmente ogni settimana, che muoiono solo loro, di solito in modi stupidi (squali spaziali? Davvero?), e che la quantità di morti dell’Intrepid è ridicolmente fuori scala. Dopo approfondite ricerche (come? Boh, ma che ti frega, deus ex machina, vai avanti a leggere), questo qualcuno giunge alla conclusione che essi si trovano all’interno di uno show televisivo. Uno scritto piuttosto male, oltretutto. Non solo infatti è una patetica imitazione dello ST originale, ma è anche privo di fantasia e originalità (squali spaziali e macchina deus ex machina, ricordate?). Che in qualche modo, chissà come (anche Scalzi deve usarla parecchio quella macchina) rende reale, in un futuro ipotetico di una qualche realtà alternativa, quello che nel nostro presente una casa di produzione realizza e manda in onda. Il che non significa esattamente che il loro universo non esista: ma che è stato creato da una realtà che in qualche maniera ancora ne influenza pesantemente gli eventi.

Attenzione a quel “chissà come“: alla fine non ce ne frega nulla. Esattamente come chissà come fanno a fare questo e quello, il fatto che la narrazione diventi meta-narrazione è solo un MacGuffin. Sembra il fulcro della storia, e invece nulla. Ci gira attorno, ma la trama è un’altra.

Per loro, infatti, imperativo essenziale diventa adesso individuare tale presente, rintracciare gli autori e chieder loro di fermarsi; inutile ora stare qui spiegare come fanno, tanto è ovvio che ci riusciranno, c’è anche il lieto fine.

Ma non è questo che ci interessa.

Il gioco delle pareti

Fin qui era un gioco letterario. Quel che rende davvero interessante questo libro è che dopo la risoluzione del problema la scena si sposta nel presente, con sfondamento della quinta, sesta, settima parete, fate voi. Ci spostiamo sull’autore del programma tv (che non è John Scalzi, per la cronaca) e sul fatto che ora lui sa quel che accade. Che non ha più il coraggio di scrivere, che ha paura di causare altre morti. Che anche se non ne inserisse lo farebbero in post produzione (senza azione, morte e pathos non c’è storia d’avventura). E non serve neanche che le mostri, tali morti: basterebbe dire che c’è stata una guerra oppure che si sta cercando una cura per una certa malattia che ecco, miliardi di morti sarebbero serviti senza che si siano neanche mai visti.

Buona parte del libro è quindi incentrata sulla ricerca effettuata da Nick Weinstein, l’autore, per superare questo blocco dello scrittore, fino a vederlo incontrare (in sogno) i suoi uccisi, consci di essere sia morti reali che prodotti letterari, che in tal senso comunque non moriranno mai (a che parete siamo arrivati?), i quali gli fanno notare quanto sia stronzo (squali spaziali? Davvero?!). Non tanto perché li abbia uccisi, tutti muoiono, quanto perché l’abbia fatto in modo stupido (squali spaziali l’abbiamo già detto?). Non da senso a quelle morti, non le omaggia. Non le usa per rendere il mondo un posto migliore, non effettua cambiamenti, si adagia. Nick è solo un altro personaggio che si lascia vivere (e morire): anche lui indossa la redshirt, in fondo. C’è da chiedersi se Scalzi non riveda sé stesso, in questa visione. Indossiamo tutti una maglietta rossa? Tutti sappiamo che dovremo morire, un giorno. Ma li scansiamo davvero questi squali spaziali?

Una volta ripresosi (almeno parzialmente) dalla colossale sbronza che l’aveva portato ad un viaggio oltre immensità delle pareti, Nick scrive la migliore sceneggiatura che abbia mai scritto nella sua vita, che a noi non sarà dato di conoscere perché ricrollerà subito sotto gli effetti dell’alcool. Le sue ultime pagine non sono altro che un ringraziamento a tutti coloro che lo seguono sul suo blog ove aveva raccontato tutta questa folle storia:

“Alcuni di voi si sono chiesti: ma non sarà tutta una bufala? Ho mai avuto davvero un blocco dello scrittore? Oppure era solo un esercizio di creatività alternativa, uno strampalato progettino collaterale di qualcuno che scrive troppe pagine su raggi laser, esplosioni e alieni? E i miei personaggi hanno mai preso vita per davvero?Be’, provate a riflettere. Io lavoro nella fiction. Io lavoro nella fantascienza. Non faccio altro che inventarmi cose pazzesche. Qual è la spiegazione più logica in un caso come questo: è altra fiction, oppure tutto quello che ho scritto nel blog è veramente vero ed è successo davvero? Voi sapete qual è la risposta più logica.

Altre realtà letterarie

Ma ancora non è finita. Nello stesso presente, cavalcando il fatto che ciò che avviene qui ha diretta interferenza con l’altra realtà, ora la storia si sposta su qualcun altro. Un ricco tizio annoiato che non sapeva bene cosa fare della sua vita e che di fatto la stava buttando via. E che aveva anche, tra le altre cose, interpretato brevemente una redshirt: proprio una di quelle tornate indietro nel tempo, prima di avere nella nostra realtà (sua? Numero di pareti, per favore?…) un bruttissimo incidente al seguito del quale cadde in coma irreversibile.

Ecco, qua interviene uno degli espedienti narrativi più belli che abbiamo mai visto: poiché le due realtà si influenzano a vicenda, viene chiesto di realizzare un nuovo episodio sul personaggio in coma (attenzione, quindi: saranno gravemente feriti e in coma sia il personaggio del presente che il personaggio maglia rossa del futuro); poiché il personaggio del presente è in coma, incapace quindi di recitare alcunché, sarà il maglia rossa del futuro a restare nel presente ad interpretare il comatoso del futuro che si riprenderà, perché così verrà interpretato nel presente; il comatoso del presente invece verrà ritrasportato nel futuro dove dovrà solamente interpretare il comatoso, appunto: fino a che qualche diavoleria del futuro (deus ex machina, ricordate?) lo rimetterà davvero in piedi, una volta cioè che nel passato questa storia sarà stata scritta, interpretata e girata dalla sua stessa controparte ancora sana. A quel punto i due, entrambi sani, semplicemente si saranno scambiati di corpo e posto, mantenendo ognuno la sua integrità mnemonica originale (quello che sarà rimasto nel passato ad interpretare l’attore del passato sarà l’attore del passato, perché così è scritto in sceneggiatura; e il comatoso del passato riportato nel futuro come uomo in rosso ferito sarà l’uomo in rosso ferito e guarito).

Ed ecco che il MacGuffin è diventato il vero deus ex machina di questa storia. Capacità letterarie.

Questa nuova parte di storia prende in esame il nuovo corso dell’esistenza di questo personaggio del passato, che ovviamente in poco tempo scopre cosa è accaduto e capisce di aver avuto una seconda possibilità di quelle che non capitano nel corso dell’esistenza, e diventa letteralmente una persona nuova. C’è addirittura da chiedersi se non sia questa la nuova possibilità (quella di riscoprirsi), e tutta la fantascienza che ci sta dietro non sia altro che il MacGuffin/Deus ex machina che permette la narrazione di questo miracolo.

Nick ha scritto la sua migliore storia, e non sappiamo quale essa sia. Sappiamo per certo che non è quella dello scambio dei corpi perché quella è stata un’idea degli uomini in rosso. E se fosse questa, allora? Se fosse la seconda possibilità data a un ragazzo che stava buttando via la propria esistenza? Sotto questo punto di vista non sarebbe neanche un romanzo di fantascienza ma un romanzo di formazione. Incredibile cosa si possa fare quando si sanno usare parole e generi.

E se andasse ancora oltre (la scatola della quarta parete ormai è diventata un tesseratto)?

Se fosse Nick ad essere diventato la persona migliore che fa sì che le morti che è costretto a scrivere possano migliorare il mondo, per quanto piccolo esso sia?

Se oltre al recupero del ragazzo comatoso fosse opera sua tutto quanto? Anche il fatto, ad esempio, che una delle maglie in rosso, nel suo viaggio nel passato, fosse andato a trovare l’attrice che aveva interpretato la moglie, ormai morta, di quello che aveva scoperto tutto, lasciandogli foto, lettere, ricordi di una intera vita che non era mai avvenuta?

Scrittori creatori di universi

Quanto avrà influito questo sul fatto che poi la ragazza sia andata a cercare l’attore che aveva interpretato il marito e che tra i due, poi, sia sorto lo stesso sentimento che esisteva tra i personaggi della serie?

C’è spazio persino per una interrogazione filosofica/spirituale, quando la ragazza va da un suo amico prete a chiedergli se una stessa persona che vive due esistenze diverse sia la stessa persona. Nessuno può rispondere a una domanda simile: tuttavia, ogni autore si pone domande simili quando riflette sui suoi personaggi.

È difficile scrivere e non sentirsi Dio.

Che cosa ha scritto, davvero, Nick Weinstein?

E John Scalzi? Lui ha scritto un gioco letterario? Un atto d’amore verso personaggi, serie tv, idee? E se fosse lui ad essere andato ancora ancora oltre?

Tra le sue opere, 12 anni prima di Redshirts, troviamo The Rough Guide to Money Online. Da questo a una storia che attraverso tanto umorismo è la summa di un sacco di cose che andrebbero spiegate in una scuola di scrittura e di umanità ce ne passa.

Sarà mica lui ad aver attraversato un infinito viaggio tra pareti sfondate ed esserne uscito totalmente cambiato?