Ariaferma

Ariaferma: Servillo e Orlando raccontano il carcere

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Presentato fuori concorso al Festival del cinema di Venezia 2021, Ariaferma risulta essere una gara di bravura tra due pesi massimi del cinema italiano, Toni Servillo e Silvio Orlando.

I due, sotto la regia di Leonardo di Costanzo, raccontano il tempo immobile e stagnante di un carcere in fase di dismissione.

Un film fatto più di pause che di azioni, ma che tiene lo spettatore in una tensione continua e sempre sul punto di esplodere ma che, per scelta narrativa, non esplode mai.

Sinossi

Di respirare la stessa aria di un secondino non mi va cantava De André nel suo brano “Nella mia ora di libertà”, ed è con queste parole che potrebbe sintetizzarsi questo film le cui dinamiche mettono a stretto contatto due mondi vicini eppure in contrapposizione, quello dei carcerati e dei carcerieri. Due mondi fatti di solitudini speculari, di regole da rispettare e da interpretare, di ruoli da scardinare.

Tutto avviene in un carcere vecchio e decadente, in un luogo imprecisato della Sardegna, che sta per chiudere. Tutti i detenuti vengono trasferiti, insieme agli agenti. Quasi tutti, perché per una dozzina di detenuti e alcuni agenti di polizia non è ancora arrivato il momento. In attesa che le questioni burocratiche si risolvano e si trovi una collocazione per tutti, sono tutti costretti a rimodulare la gestione del carcere e il proprio microcosmo in un’atmosfera tesa e sospesa.

Al centro della narrazione i due protagonisti, Gaetano Gargiulo (Toni Servillo) e Carmine Lagioia (Silvio Orlando). Gargiulo è l’agente di polizia penitenziaria che per anzianità è stato messo temporaneamente alla direzione del carcere e a capo di un pugno di colleghi, in attesa della definitiva ricollocazione dei detenuti. Lagioia è invece un ex camorrista e il detenuto probabilmente più pericoloso del gruppo.

Si aggiunge, poi, un tredicesimo detenuto, Fantaccini (Pietro Giuliano), giovane e problematico che farà da ago della bilancia tra i due mondi in contrapposizione.

Recensione

Tutto il film si regge su un interrogativo che, in maniera più o meno provocatoria, Lagioia pone a Gargiulo: “È dura stare in carcere, eh?”. Gargiulo rifiuta l’accostamento, lui non si sente in carcere, ma ovviamente è lì che si trova e la differenza tra dietro e fuori le sbarre è troppo labile in quel contesto.

Tutti i componenti della storia sono infatti fermi, bloccati, a tempo indeterminato. “L’ordine di trasferimento può arrivare in qualsiasi momento, anche domani”, si ripete, come un mantra, ma il momento non arriva mai. La tensione, inevitabilmente, diventa sempre più tangibile fino a sfociare in una protesta da parte dei detenuti a causa del cibo terribile che proviene da una ditta esterna, invece che dalla cucina interna al carcere, la quale rimane invece chiusa per questioni di sicurezza, come restano chiuse tutte le altre attività in cui precedentemente i detenuti trovavano sfogo.

A questo punto bisogna decidere se mantenere la linea dura delle regole o se allentare la presa. L’allentamento, che da qualcuno viene interpretato come cedere al ricatto, è invece la chiave per mantenere in equilibrio una situazione che potrebbe con un nonnulla precipitare. Agenti e detenuti, attraverso un processo delicato ed instabile, imparano progressivamente ad abbandonare le divisioni in favore di una moderazione carica di buon senso e umanità.

La moderazione è la cifra narrativa di tutto il film. Nessuno vuole strafare, né i due attori protagonisti, abituati a giganteggiare davanti alla macchina da presa (Basti pensare a Servillo in “Qui rido io”), né il regista che non usa nessun virtuosismo. La macchina da presa è usata infatti in maniera asciutta, ruvida. Ne viene fuori così un racconto il cui estremo realismo sfocia nell’astrattismo, nell’atmosfera da incubo: immobile, eterea, ferma.


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