"La Chimera": recensione del film di Alice Rohrwacher

“La Chimera”: recensione del film di Alice Rohrwacher

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La morte è una malinconica compagna che non fa paura in “La Chimera”, piuttosto il film ci suggerisce di cambiare prospettiva, come pure gli uccelli del brano di Battiato presente nei titoli di coda “cambiano le prospettive al mondo”, per andare alla ricerca di un segreto nascosto nel passato.

Ci si trova davanti una storia mistica sospesa tra la vita e la morte, che oltre a confermare l’originalità della voce di Alice Rohrwacher all’interno del panorama cinematografico contemporaneo ( a livello sia nazionale che internazionale), sancisce l’intenzione della regista di definire quello che – prendendo in  prestito l’espressione da Pier Paolo Pasolini – è un cinema di poesia, cioè un cinema dove i protagonisti sono lo stile e il linguaggio costruiti per mezzo della cinepresa. Un realismo magico che dipinge la realtà nella sua nudità, ma aggiunge elementi incantati che confondono i confini tra mondo terreno e aldilà.

Il film sembra essere il terzo tassello di una trilogia, composta anche dai precedenti Le meraviglie del 2014 e Lazzaro felice del 2018, che tratta il tema  del rapporto con il passato.

Ambientato nei decadenti paesaggi laziali degli anni ’80, narra la vicenda di Arthur (Josh O’ Connor, già visto in The Crown e Peaky Blinders), anche detto “L’inglese” per le sue origini, un ragazzo appena uscito dal carcere che ritorna nella Tuscia, in quei luoghi dove in passato è stato calorosamente accolto.

Già incarnando metaforicamente un’antitesi al mondo capitalistico prodotto della modernizzazione, dove tutto può essere venduto e comprato, Arthur viaggia in treno portando con sé soltanto i vestiti lerci che indossa e il suo foglio di via. La metafora sul materialismo ferma poi la lente su un’immagine poco nota: quella dei cosiddetti tombaroli, che negli anni Ottanta agivano nelle campagne tra Lazio e Toscana in cerca di tombe etrusche da saccheggiare, per poi vendere gli oggetti al mercato nero dei reperti. Scopriremo che è proprio “L’inglese” ad avere le chimere, cioè delle visioni che lo rendono capace in modo rabdomantico di trovare i terreni in cui scavare per rinvenire i tesori delle necropoli.

In un panorama che vive tra natura selvatica, dimore abbandonate e feste di piazza, la Rohrwacher ci descrive con leggerezza e ironia la varietà di personaggi che girano intorno alla vita del protagonista: spiccano gli amici saccheggiatori di tesori, la misteriosa compratrice di opere d’arte (Alba Rohrwacher), un’anziana donna di nome Flora che mostra grande affetto verso il ragazzo (Isabella Rossellini) e poi c’è Italia (Carol Duarte), una ragazza straniera ospitata in casa da quest’ultima.

"La Chimera": recensione del film di Alice Rohrwacher

Italia (Carol Duarte) e Arthur (Josh O'Connor) in una scena
 del film

La cinematografia  è affidata ad una tecnica elevatissima dell’immagine, dove si combinano formati diversi di pellicola, dal 35mm, il 16 mm fino al super 16, e ad una accurata selezione musicale che va dai Kraftwerk a Shubert.  L’avanzamento della narrazione non subisce mai cali , alternando momenti comici ad altri drammatici.

Ma se a prima vista gli avvenimenti del racconto si concentrano sulle vicissitudini di Arthur e del suo gruppo di amici che trafugano i siti archeologici della costa laziale, in realtà “La chimera” altro non è che la storia di un amore perduto, quello di Beniamina, una ragazza di cui egli vede solo un’immagine spettrale e di cui sia lui che la madre Flora sembrano aspettare il ritorno. O’ Connor è commovente nella sua interpretazione di un uomo che è una sorta di alieno, che va con aria trasognata alla ricerca di quella che è la sua di chimera, muovendosi tra il perpetuo sogno della sua amata e la realtà materiale alla quale resta inchiodato soprattutto grazie all’affetto sincero maturato per Italia.

Arthur è condannato alla sospensione tra i mondi della vita e della morte, del passato e del presente, nel sottosuolo e in superficie. In questa vicenda che ricorda il mito di Orfeo e Euridice, è aggrappato a qualcosa che non può vedere ma che lui solo può sentire, proprio come gli Etruschi percepivano un mondo invisibile, quello delle divinità, al quale dedicare la loro arte.

Le sequenze che mostrano le calate nei meandri delle tombe sono tra le più evocative del film, con inquadrature che si focalizzano sulla magia primordiale di questi luoghi delle meraviglie.

E per percepire quella magia, per cambiare prospettiva appunto, bisogna andare oltre ciò che vedono gli occhi. Bisogna andare a testa in giù. È ciò che Arthur impara a fare nell’ultimo atto del film, arrivando a capire che è giusto che determinanti oggetti rimangano nascosti perché, come ripete più volte lui stesso , “Ci sono cose che non sono fatte per gli occhi umani”.

“La Chimera” ci dà così uno sguardo per così dire “cosmico” sulla realtà, uno stupore per aspetti del reale spesso dati per scontati o considerati superficialmente. È un po’ anche il tipo di sguardo che dovremmo avere sul film, emblematico esempio dei piccoli miracoli che il cinema italiano può fare.

 

 


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