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“La Padrina – Parigi ha una nuova regina”, commedia poliziesca made in France con l’affascinante Isabelle Huppert, è uscita finalmente il 14 ottobre anche nelle sale cinematografiche italiane, a quasi un anno di distanza dall’uscita francese, causa chiusura cinema per Covid.
Il film, tratto dal romanzo “La Daronne” di Hannelore Cayre, è diretto da Jean-Paul Salomé, che è anche co-sceneggiatore insieme al fratello e all’autrice del libro. L’adattazione è valsa loro una nomination al César 2021, mentre la pellicola ha vinto il Prix Jacques-Deray, premio cinematografico creato dall’Institut Lumière nel 2005 esclusivamente per celebrare i migliori polizieschi francesi
La trama de “La Padrina – Parigi ha una nuova regina”
Patience (Isabelle Huppert) è un’interprete arabo-francese che lavora come indipendente per la divisione narcotici della polizia, con il compito di tradurre le intercettazioni telefoniche degli spacciatori.
Patience è anche la dimostrazione che il motto latino nomen omen (un nome, un destino) è sempre valido, poiché lei, di pazienza, ne deve portare parecchia nella vita.
Pazienza con la madre, ospite di una casa di ricovero iper-cara completamente a suo carico, in quanto figlia unica, che nonostante questo e le sue frequenti visite non le risparmia critiche e sensi di colpa costanti. Pazienza per la situazione in cui l’ha lasciata il marito, morto a soli 34 anni con già alle spalle una dose non indifferente di debiti che lei impiegherà i successivi vent’anni di lavoro a saldare. Pazienza per la sua professione, in cui deve rimanere per ore all’ascolto di conversazioni spesso estremamente volgari e certo inadatte al suo quotidiano di madre single di due figlie.
Proprio una di queste intercettazioni, però, cambierà completamente il corso della sua vita: riconoscendo la voce dell’infermiera marocchina che si prendeva cura di sua madre (Liliane Rovère) mentre parla al figlio, autista che trasporta la resina di cannabis per gli spacciatori che stanno per arrestare, Patience decide di proteggere il ragazzo e modifica la traduzione.
Da quel preciso istante, tutto prende una piega differente e lei, da donna costretta a “pazientemente” subire le svolte della sua esistenza, spesso in conseguenza a decisioni altrui, per la prima volta afferra il timone e l’occasione al volo. Agisce per impulso e da spettatrice diventa protagonista. Si inventa una nuova identità, impara le regole del gioco, entra in un mondo dominato da uomini violenti e senza scrupoli riuscendo a farsi rispettare. Rischia, piega la legge ai suoi scopi semplicemente ignorandola, si diverte quasi. Anzi, si diverte proprio.
Diventa la versione femminile del Padrino, come da titolo italiano. O piuttosto la daronne, che in francese significa la madre ma anche la padrona. Di sé stessa e del suo destino.
La Padrina - Parigi ha una nuova regina: Isabelle Huppert - Fonte foto: GuyFerrandis / Lydie Nesvadba / Lesfilmsdulendemain / LaBoetieFilms
Commedia piacevole incentrata sul carisma di Isabelle Huppert
“La Padrina – Parigi ha una nuova regina” ruota interamente attorno alla bravura e al fascino atemporale della protagonista, Isabelle Huppert. Mostro sacro del cinema francese, e non solo, con quel suo viso di porcellana che non tradisce i quasi settant’anni magnificamente portati, Huppert è un magnete sul grande schermo che quasi cancella la presenza di tutti gli altri, pur bravi, attori.
Si tratta davvero, nel suo caso, di un dono innato che le permette di “bucare lo schermo”, come si suol dire: minuta, avvenente senza esserlo in modo spettacolare, dalla mimica anche tutto sommato piuttosto limitata, riesce comunque a risultare non solo credibile ma anche – fatto completamente inedito per lei – divertente nei primi, goffi tentativi di approccio al crimine del suo personaggio.
La classe che le è propria ci fa dimenticare in automatico tutte le – numerose – incongruenze del film che, se da una parte vuole documentare in modo preciso le modalità del narcotraffico (pare che il regista abbia incontrato degli interpreti giudiziari per rendere verosimili i dialoghi in arabo degli spacciatori, ad esempio), dall’altra sorvola su tutta una serie di dettagli oggettivamente poco plausibili.
Ad iniziare dalla difficoltà a immaginarsi la Huppert, dall’apparenza classica della francese alto borghese, come la figlia di immigrati del Nord Africa ex-coloniale alle prese con pusher, criminalità organizzata nonché probabilmente mafia cinese, che si barcamena in quartieri parigini dove una con la sua allure verrebbe identificata all’istante come mosca bianca. Mentre, nel film, le basta imparare su internet come indossare l’hijab, truccarsi un po’ di più e voilà, les jeux sont faits, nessuno la riconosce più. E, come per incanto, gli scagnozzi che assolda prendono ordini a bacchetta da lei, probabilmente ammaliati dallo stesso “effetto Huppert” che gli spettatori.
La Padrina - Parigi ha una nuova regina: Isabelle Huppert nel ruolo di Patience Fonte foto: kinocameo.ch
Nessuno riconosce nemmeno la sua voce quando si auto-traduce un’intercettazione, nonostante sia in pieno reparto anti-droga e, ehi, quando parla in francese la sua voce è la stessa di quella in arabo che tutti stanno ascoltando. In pratica, la piccola e lievemente maldestra Patience riesce a farla in barba a colleghi poliziotti, all’amante che è anche il capo dell’intera operazione per arrestare prima i trafficanti e poi [Spoiler Alert!] la Padrina che ha rubato loro il carico di droga per rivenderlo a fatti propri, nonché all’intera banda di dealer, precedente “legittima” (per così dire) proprietaria dello stock di cannabis.
Tutti i “maschietti” di contorno escono piuttosto male dal confronto con la protagonista – perché imbranati, perché vigliacchi, perché incapaci di vedere che gliela si sta facendo sotto gli occhi. Perché violenti (come i delinquenti che picchiano a sangue chi lavora per la “Daronne” usurpatrice) e accecati dalla brama di potere (come il fratello dell’infermiere che sottovaluta la capacità di Patience di riciclarsi in capo mafia con un colpo di matita per occhi).
Unica eccezione, il capo commissario, Philippe (Hippolyte Girardot) che, pur non sembrando un particolarmente brillante risolutore di enigmi polizieschi, pare alla fine più voler scegliere di non vedere per amore di Patience che non aver davvero visto.
Divide il trono di Regina – dello schermo e della Parigi del titolo – con Huppert il suo alter ego cinese, Colette Fo (Jade Nadja Nguyen), la fantastica amministratrice dell’immobile nel 13° arrondissement, dove vive Patience, che ha ricomprato ad uno ad uno tutti gli appartamenti del condominio e che gestisce traffici, se non di droga, quantomeno altrettanto ai margini della legalità.
Giudizio finale su La Padrina – Parigi ha una nuova regina
Commedia leggera e piacevole, senza essere eccezionale.
Descrive molto bene alcuni quartieri di Parigi, come quello cinese, appunto, o il 18° con la sua multiculturalità. Dipinge un mondo di donne pratiche, dalla moralità fluida che si adatta alle circostanze, che è però abbastanza un cliché già usato dell’universo femminile. Tratteggia piuttosto bene alcuni personaggi di donne forti, dalla boss cinese già ricordata alla madre della protagonista, interpretata dalla bravissima Liliane Rovère, caratterista da tempo che deve il suo recente successo alla serie televisiva “Chiami il mio agente!” (“Dix pour cent”, nella versione originale).
E, sopra e più di ogni altra cosa, offre un palcoscenico per sfoggiare la – insospettata – verve comica, l’arabo quasi perfetto e lo sguardo altero della vera Regina del cinema francese, Madame Huppert. Come dicono gli inglesi, che in merito hanno anche forgiato un’espressione, “This is Isabelle Huppert’s world, and we all live in it” – questo è il mondo di Isabelle Huppert, e noi tutti ci viviamo dentro. “La Padrina – Parigi ha una nuova regina” è il palco della Huppert, e a tutti noi può far piacere viverci dentro, il tempo di un film.
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Scrivo da sempre. Da quando ancora non sapevo farlo, e scrivevo segni magici sulle tende di mia nonna, che non sembrava particolarmente apprezzare. Da quando mio nonno mi faceva sedere con lui sul lettone, per insegnarmi a decifrare quei segni magici, e intanto recitava le parole scritte da altri, e a me sembravano suoni incantati, misteriosi custodi di segreti affascinanti e impenetrabili, che forse, un giorno lontano, sarei riuscita a comprendere e che, per il momento, mi limitavo ad assaporare sognante. Sogno ancora, tantissimo, e nel frattempo scrivo. Più che posso, ogni volta che posso, su ogni cosa mi appassioni, mi incuriosisca o, più semplicemente, mi venga incontro, magari suggerita da altri.
Scrivo per Hermes Magazine e per altri siti, su vari argomenti, genericamente raggruppabili sotto il termine di “cultura“. Scrivo anche racconti, favole, un blog che piano piano prende forma, un libro che l’ha presa da un po’ e mi è servito a continuare a ridere anche quando tutti intorno a me sembravano impazzire (lo trovate ancora su Amazon, mai fosse vogliate darmi una mano a non smettere di sognare).
Scrivo perché vorrei vivere facendolo ma scriverò sempre perché non riesco a vivere senza farlo.
Scrivo perché, come da bambina, sono affascinata dal potere di questi segni magici che si trasformano in immagini, in pensieri, in storie. E, come da bambina, sogno di possedere quella magia che permette loro di prendere vita dentro la testa e nell’immaginazione di chi li legge.