Oggi è morta Maria Ilva Biolcati. Un nome perfettamente sconosciuto. Appartenuto a una donna, una diva. Una cantante, ma anche una grandissima attrice di teatro. Conosciutissima in tutta Europa e anche nel resto del mondo. Una carriera durata oltre cinquant’anni. In realtà quel nome che le fu dato all’anagrafe, Maria Ilva, era frutto di un consiglio che i genitori ricevettero dal parroco per donare la possibilità alla bambina di festeggiare l’onomastico. Loro volevano chiamarla Milva. E in fondo non andò a finire che i genitori ebbero ragione?
Così Milva oltre ad affermarsi con questo nome laico, crebbe con un forte sentimento politico. Lei che divenne la prescelta di Giorgio Strehler e divenne la principale interprete in Italia dei brani di Brecht e Kurt Weil. Quei video antichi, in bianco e nero, dove Milva cantava Jenny dei pirati, La ballata della schiavitù sessuale o Surabaha Johnny. Il disco del 1971 Milva canta Brecht è un documento di quello sterminato universo che Milva visse dentro di sé. Basti cercare in rete un video in cui è possibile vedere un video cimelio di prove in diretta con Strehler, dove si vede quanto concretamente lei fosse in quel rapporto empatico, magico con il regista. Lui comunicava a lei le emozioni provandole, facendole l’esempio della scena e del perché si arrivava lì e lei capiva, perché era speculare a lui. Lui le diceva che gli italiani sono troppo melodrammatici e non riescono a uscire dal loro modo sempre compassionevole, patetico, mentre quello spirito ironico e distaccato, e per questo profondamente tragico che avrebbe desiderato Brecht… era lì che voleva condurla. E lei non faceva troppa fatica, perché in lei viveva quel sentimento. Quella stessa freddezza poetica che mostrava in Alexander Platz scritta da Franco Battiato. O in quelle straordinarie cover di Edith Piaf in cui Milva cantava versioni tradotte, e cosa rara, belle quanto le originali.
Milva era una cantante talmente eclettica e al contempo semplice. Lei non pretendeva altro che di esibirsi e mostrare la sua voce, la sua profonda emotività dietro cui tempeste sottotestuali erano la traccia di quel teatro che le scorreva dentro le vene. Sono matta da legare diceva il titolo di un suo album del 1974 e infatti anni dopo divenne anche amica della nota poetessa Alda Merini. Milva aveva quel senso civile, quell’appartenenza politica che determinava una personalità forte. Da sempre è stata tonica e nerboruta come ogni vera donna di teatro. Numerose furono inoltre le sue partecipazioni al festival di Sanremo ma non vinse mai. Come avrebbe potuto un’artista di quella levatura?
Ricordo nel 2007 un suo brano che arrivò in finale, intitolato The Show must go on. Non era eccezionale, ma nel testo che le era stato scritto da Faletti ricordo impresso quel riferimento agli artisti falliti. Milva seppure fu una diva nel senso più totale del termine, è sempre rimasta vicina agli ultimi, proprio esteticamente. Lei appartiene a un tempo di elegante povertà, che sempre più rilucerà nel ricordo della Storia. Quella a cui Milva apparteneva già in vita.
Un’artista che ha attraversato il novecento e che proprio agli inizi del nuovo millennio, nel 2010, decideva di abbandonare le scene. E ora è morta, non si sa per quale ragione. Sicuramente era malata. Aveva 81 anni. Ha vissuto. E non ha avuto bisogno di morire per diventare un mito.
Luca Atzori, laureato in filosofia, ex direttore artistico del Teatro Piccolo Piccolo, Garabato e membro fondatore del Mad Pride di Torino. Drammaturgo, attore, poeta, cantautore. Autore dei libr: Un uomo dagli occhi rotti (Rizomi 2015) Gli Aberranti (Anankelab 2019), Teorema della stupidità (Esemble 2019) Vangelo degli infami (Eretica 2020) e dei dischi Chi si addormenta da solo lenzuola da solo (2017), Mama Roque de Barriera (2019) Insekten (2020) Iperrealismo magico (2020) Almagesto (2021).