Fonte foto: Il Messaggero
Trent’anni dopo la strage di Capaci, non è ancora facile parlare di uno degli episodi più bui della storia della nostra Repubblica. Non lo è per niente.
Così come non è semplice tracciare un ricordo del Giudice Falcone, un gigante, il cui operato – sempre al servizio della legge, basato su una condotta morale ineccepibile – è e sarà sempre un valido esempio per tutti noi e per chi ci sarà dopo di noi.
La prima cosa chi mi viene in mente – ormai da trent’anni – quando guardo le foto dello scempio di Capaci, è un silenzio irreale che si impossessa della mia mente, come se in quei pochi secondi in cui mi soffermo a osservare quelle immagini, il tempo si fermasse, un po’ come se premessi lo stop sul telecomando, mentre guardo una serie TV.
Quel silenzio assoluto mi costringe a pensare alla brutalità criminale di quegli uomini che producono una montagna di merda (cit. Peppino Impastato), contrapponendosi a coloro che lavorano per costruire e mantenere la società civile.
Il Giudice Giovanni Falcone non era solo un servitore dello Stato, come amava definirsi, era anche un magistrato che si occupava della manutenzione della nostra società, proprio come disse Andrea Camilleri in un’intervista:
“La Costituzione ha bisogno di una continua manutenzione.”
Lui era conscio del suo ruolo e soprattutto dei rischi che correva, tant’è che spesso si definiva un morto che cammina, ma la cosa non lo spaventava; a tal proposito ricordo di un filmato in cui Falcone, durante una conferenza stampa o un incontro pubblico con una qualche categoria, ricevette un biglietto su cui – si dice – c’era scritta l’ennesima minaccia, alla quale reagì facendo spallucce.
Ecco, Giovanni Falcone era quel sollevare le spalle nei confronti della Mafia, era il chiaro messaggio di chi continua a procedere a testa alta senza tentennare, consapevole di come i mafiosi lo temessero: dietro quella mezza tonnellata di tritolo che lo aveva ucciso, insieme alla moglie Francesca Morvillo e ad alcuni uomini della scorta – Vito Schifani, Rocco Dicilio e Antonino Montinaro – c’era la paura di chi del terrore e della violenza ha fatto uno stile di vita, nel nome dei piccioli, del denaro, della roba di verghiana memoria.
Una vita dedicata alla lotta contro la mafia
La sua è stata una missione, fin da quando si è laureato in giurisprudenza, nel 1961, passando poi per le nomine di Pretore di Lentini e di Sostituto procuratore a Trapani. Alla procura di Palermo, dove arriva nel 1978, collabora con l’amico di una vita Paolo Borsellino e Rocco Chinnici, il cui l’assassinio portò alla costituzione del Pool Antimafia.
Questa importante istituzione è diretta da Antonino Caponnetto e ne fanno parte, oltre i già citati Falcone e Borsellino, Giuseppe Di Lello Finuoli e Leonardo Guarnotta. Sono gli anni dei celebri interrogatori del pentito Tommaso Buscetta, interrogatori che danno un’accelerata alle indagini su Cosa Nostra, consentendo ai magistrati di ricostruire l’organigramma della Mafia, la cosiddetta cupola.
Giovanni Falcone acquisisce un’enorme quantità di informazioni, da indurre i mafiosi a minacciare prima e ad agire poi, assassinando due tra i suoi più stretti collaboratori: Giuseppe Montana e Ninni Cassarà.
Per questi motivi Falcone e Borsellino sono costretti a trasferirsi – insieme alle loro famiglie – presso l’isola-penitenziario dell’Asinara, per continuare indisturbati il loro lavoro, evitando di indebolire l’impianto accusatorio necessario per affrontare il maxi-processo.
Il Maxi-processo
È inevitabile, quando si parla del giudice Falcone, menzionare il Maxi-processo, ossia il più grande procedimento giudiziario contro la criminalità organizzata mafiosa, mai tenuto al mondo. È durato sei anni, dal 1986 al 1992: vengono giudicati 460 imputati, coinvolti 200 avvocati difensori e si conclude con 19 ergastoli e pene per un totale di 2.665 anni di reclusione.
È un duro colpo per Cosa Nostra che reagisce dando inizio alla stagione delle bombe tra il 1992 e il 1993, cominciata con l’attentato di Capaci, con quello di via D’Amelio, in cui perse la vita il giudice Borsellino e proseguito con il fallito attentato a Maurizio Costanzo e le bombe a Milano, in via Palestro, a Firenze, in via dei Georgofili e a Roma in San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro.
Tutto questo con l’intento di indebolire e di conseguenza di ricattare il Governo e la società civile, al fine di realizzare la sciagurata trattativa Stato-mafia.
Ma come disse il giudice Falcone:
“La mafia non è affatto invincibile: è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine.”
Nato in un torrido ferragosto del 1968 a Milano, dove vive tutt’ora.
Si considera vecchio fuori, ma giovane dentro: in realtà è vecchio anche dentro.
La scrittura è per lui un piacere più che una passione, dal momento che – sua opinione – la passione stessa genera sofferenza e lui, quando scrive, non soffre mai, al massimo urla qualche imprecazione davanti al foglio bianco.
Lettore appassionato di generi diversi, come il noir, il thriller, il romanzo umoristico e quello storico, adora Calvino, stravede per Camilleri e si lascia trascinare volentieri dalle storie di Stephen King e di Ken Follett.
Appassionato di musica, ascolta di tutto: dal rock al blues, dal funky al jazz, dalla classica al rap, convinto assertore della musica senza barriere.
Nel 2020 è uscito il suo primo romanzo, dal titolo “L’occasione.”, genere umoristico.
Ha detto di lui Roberto Saviano:”Non so chi sia”.