Irena Sendler la vita in un barattolo

Irena Sendler la vita in un barattolo

Irena Sendler iniziò la sua battaglia contro le persecuzioni antisemite del regime nazista già dagli anni dell’università. Per questo motivo venne espulsa per tre anni. Lei non era ebrea ma non poteva accettare che da un giorno all’altro si dovesse voltare le spalle alle persone con le quali aveva da sempre avuto buone relazioni solo perché l’invasore lo richiedeva.

Irena Sendler la vita in un barattolo

Fonte foto: primavercelli.it

Irena Krzyżanowska, passata alla storia come Irena Sendler, naque nella periferia operaia di Varsavia il 15 febbraio 1910 in una famiglia cattolica. La sua vita fu influenzata dall’esempio del padre, che perse ancora bambina. Egli, infatti, era medico e curava tutti coloro che ne avevano bisogno, anche gli ebrei. Perfino quei pazienti che i suoi colleghi si rifiutavano di assistere. Contrasse il tifo e ne morì nel 1917. Dopo la sua morte, in segno di riconoscimento, i membri della comunità ebraica decisero di pagare gli studi della figlia. Questo gesto fece sviluppare nella giovanissima Irena una profonda empatia con quella realtà.

Irena Sendler la vita in un barattolo

Fonte foto: scuolaememoria.it

Iniziò a lavorare come infermiera e assistente sociale nella regione della Masovia. Quando la Germania, nel 1939, occupò la Polonia Irena si trasferì a Varsavia svolgendo il suo lavoro nell’amministrazione comunale. Fino al 1942 cercò di aiutare numerose famiglie ebree a fuggire fornendo loro documenti falsi. Nel dicembre 1942 aderì al Consiglio di Aiuto degli ebrei, appena fondato e noto come Zhegota. Si trattava di una organizzazione clandestina formata da polacchi e da ebrei, politicamente schierati sia a destra che a sinistra, che operò fino al gennaio 1945. Irena ebbe l’incarico di cercare di salvare i bambini ebrei del ghetto di Varsavia. Era il ghetto più grande d’Europa e vi furono uccise 450.000 persone.

Irena Sendler la vita in un barattolo

Fonte foto: blmagazine.it

Essere assistente sociale del comune permetteva a Sendler di avere un permesso speciale per accedere al ghetto. Sapeva che i tedeschi temevano che da lì si diffondessero, anche all’esterno, epidemie, in particolare di tifo, e lei sosteneva di andare nel ghetto per scoprire tempestivamente eventuali focolai. In segno di solidarietà con  gli ebrei del ghetto e, inoltre, per non attirare l’attenzione su di sé, durante le sue visite indossava sempre una Stella di David sui suoi abiti. In alcune occasione riuscì ad entrare nel ghetto con un furgoncino, spacciandosi per un tecnico di condutture idrauliche.

Irena Sendler la vita in un barattolo

Fonte foto: perdavvero.com

Per portare i bambini fuori dal ghetto li nascondeva nel fondo delle casse degli attrezzi o in sacchi di juta dopo averli sedati per farli sembrare morti. Nel retro del furgone, spesso teneva un grosso cane addestrato ad abbaiare all’avvicinarsi dei nazisti così da coprire il pianto dei bambini. I piccoli salvati dal ghetto venivano forniti di una nuova identità e affidati a famiglie che vivevano in campagna oppure a conventi cattolici  o a parroci che li ospitavano nelle canoniche. I dati di ogni bambino erano scritti in biglietti che Irena seppelliva, dentro a barattoli di vetro, ai piedi di un albero del suo giardino. La speranza era quella, alla fine della guerra, di poterli ricongiungere alle famiglie d’origine.

Irena Sendler la vita in un barattolo

Fonte foto: irenasendler.it

Nel 1943 Irena, che era entrata nella Resistenza con il nome di battaglia “Jolanda”, viene arrestata dalla Gestapo e torturata brutalmente. Le furono spezzate le gambe e perse il bambino che aspettava. Lei che ne aveva salvati tanti non aveva potuto far nulla per salvare il suo. Non disse nulla di quello che faceva nel ghetto. Venne condannata a morte ma fu salvata dalla Zhegota corrompendo i soldati tedeschi che dovevano portarla all’esecuzione affinché la facessero scappare e inserissero il suo nome tra quelli dei giustiziati. Fino alla fine della guerra visse nell’anonimato ma non smise mai di organizzare la messa in sicurezza dei piccoli ebrei. Alla fine del conflitto recuperò tutti i barattoli sepolti in giardino per consegnarli ad un comitato ebraico che si fece carico di rintracciare i bambini e le loro famiglie. Ne furono ritrovati duemila ma gran parte delle famiglie d’origine risultarono essere state sterminate nei campi di concentramento. Quando le veniva detto che era stata brava a salvare tutti quei bambini Irena rispondeva:

«Avrei potuto fare di più. Questo rimpianto non mi lascia mai.»

Quando la guerra finì per Irena ci furono ancora momenti difficili. Era controllata e minacciata dal regime comunista polacco per i suoi contatti col governo Polacco in esilio e con l’Armia Krajowa.

Nel 1948 anche lei si iscrisse al Partito Comunista Polacco nel quale rimase fino al 1968. Lo lasciò in seguito alle politiche antiebraiche da esso intraprese nel marzo di quell’anno. Nel 1965 Irena Sendler venne riconosciuta come una dei Giusti tra le Nazioni dallo Yad Vashem di Gerusalemme. Fu l’unica volta in cui ottenne il permesso di andare all’estero dal governo comunista.

Irena Sendler la vita in un barattolo

Fonte foto: irenasendler.org

Nel 1999 in una scuola del Kansas promossero un progetto (Life in a jar) per far conoscere la storia di questa donna in tutto il mondo. Irena nel 2002 scrisse loro una lettera che conteneva questa frase:

«Un’attività fondata su comportamenti rivolti al bene di tutta l’umanità lega indissolubilmente ognuno di noi alle conseguenze che da essa derivano».

Nel 2003 papa Giovanni Paolo II le scrisse ringraziandola per le vite che aveva salvato durante la guerra. Nello stesso anno ricevette il più alto riconoscimento civile polacco, l’Ordine dell’Aquila Bianca, e il Centro Americano di Cultura Polacca a Washingtonper il coraggio e il cuore” le conferì il premio  Jan Karski. Nel 2007 fu proclamata Eroe Nazionale su proposta del Presidente della Repubblica polacco. Aveva 97 anni e non fu in grado si recarsi alla cerimonia ma mandò un suo messaggio tramite Elżbieta Ficowska, una delle bambine che aveva salvato durante la guerra:

«Ogni bambino salvato con il mio aiuto è la giustificazione della mia esistenza su questa terra, e non un titolo di gloria»

Il suo nome era stato anche proposto per il Nobel della Pace ma, alla fine fu ritenuto più meritevole Al Gore.

Il 12 maggio 2008 Irena lasciò questa terra ma il suo sorriso sono assolutamente convinta che continuerà per sempre a vegliare sui bambini che vivono in situazioni di guerra o sono, comunque, perseguitati.

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Fonte foto: nurse24.it