È con la fine del secolo scorso che la concezione artistica statunitense è stata capace di farsi spazio sulla scena mondiale, dando vita al superamento dell’idea di “capolavoro” come unità linguistica, punta estrema nell’ordine di merito del contesto artistico, e lasciando spazio alla scoperta gioiosa di un modo molto più semplice di concepire la funzione dell’arte nella crescita umana, innescando meccanismi liberatori che però, oltrepassando i limiti consacrati della “grandezza” dell’arte stessa, aprono baratri di incertezze ancora maggiori.
I così detti movimenti di “avanguardia” che vanno dell’Espressionismo Astratto degli anni ’50, alle aperture di Fluxus, alla Pop Art, alla Body Art e così via, oltre ad avere notevolmente ampliato la gamma dei comportamenti concernenti l’attività del fare arte, aprendo un varco verso la totalità comprensiva delle situazioni che determinano nell’essere Uomo un rapporto con il proprio Se analogico, hanno anche aperto il vaso di Pandora della questione di dove in definitiva siano i limiti di questa libertà espressiva e quanto il fattore etico abbia a che fare con questi limiti o meno.
I miti consumistici
Fonte foto: etsy
Già nella Pop Art simboli e segni convenzionali del grande ingranaggio comunicativo-mediale hanno riempito ingrandendosi, come nei “fumetti” di Lichtestein o nei “generi di consumo” di Oldenburgh, o moltiplicandosi o ancora venendo riletti mettendo in risalto la tecnica ed il mezzo utilizzati come è per Andy Warhol, i vuoti lasciati nell’immaginario collettivo dagli idoli del passato; da quell’enorme arte europea deificata e irraggiungibile che sovrasta da altezze secolari il giovane mondo americano.
L’immagine seriale, quella televisiva o filmica, soggetta a iterate ripetizioni nell’ingranaggio pubblicitario, a “remake” di episodi noti, al rifacimento di oggetti – sicure reinvenzioni di altre immagini appartenenti al passato, al già visto o al lontanissimo nel tempo e nello spazio quindi già interpretate ed assimilate – rassicurano sia l’autore che il fruitore da eventuali incertezze incombenti. Inoltre, al di là del corrispondere ad un perfetto prodotto “liberistico”, non interferiscono per nulla con un’educazione di massa al consumo, al feticcio quotidiano, surrogato ambito, amato e richiesto di quel bagaglio culturale e storico così soverchiamente assente.
Il rapporto con la visione filosofica europea
Fonte foto: AfrtsLife
Eppure alcune delle basi filosofiche sono state pensate ed enunciate proprio qui, in Europa, ed anche lo spiazzamento psicologico che costituisce il substrato fertile e principale del filone Inespressionista, sviluppatosi nell’America post-industriale degli anni Settanta-Ottanta, ha molto a che vedere con il rapporto tra modi di vedere differenti come quello americano e quello europeo, e con la rottura di continuità culturale venutasi a creare all’interno della promiscuità etnologica del “mondo nuovo” nelle generazioni successive alla grande ondata di immigrazioni della prima metà del secolo.
E’ il “Dasein”, “l’Esserci” heideggeriano: l’inquietudine esistenziale espressione di un nuovo vuoto di certezze aprioristiche nel rapporto tra l’uomo e la sua propria esistenza come “immediatezza non oggettivabile” .All’interno del coinvolgimento nel quale lo scorrere del tempo e gli eventi avviluppano materialmente e senza possibilità di trascendenza l’osservatore che rimane “dentro” agli eventi stessi ed ineluttabilmente li subisce ma anche modifica con la sua presenza. Ciò ben si attaglia alla situazione di crisi e di messa in discussione della produzione artistica in relazione con il sociale e con il significato stesso del fare arte che in America – e a New York in particolare – sviluppa un linguaggio estremizzante volto verso una superficialità conclamata, una assenza intellettuale, non-espressione e non-definizione, e un certo tipo di “conformismo contenutistico”.
Lo spiazzamento che ne deriva è enorme, epocale: per la prima volta ad essere messa in discussione è la spinta trascendente dell’arte, è il legame tra Etica ed Estetica rimasto inviolato dall’Antica Grecia sino alle espressioni più dissacranti della così detta Avanguardia del vecchio mondo. È del resto, come abbiamo già detto, uno piazzamento di ordine esistenziale che coinvolge l’intera società, specialmente quella americana così svincolata da legami storici a cui riferirsi e letteralmente bombardata da notizie e immagini dell’era della comunicazione e dalla frenesia del consumo.
Dopo aver seguito studi artistici si interessa appassionatamente ad approfondire i meccanismi e l’evolversi della storia dell’arte contemporanea.
Proprio in qualità di critico d’arte e corrispondente, negli anni ’80 e ’90, ha firmato saggi e recensioni per alcuni dei maggiori periodici del settore, tra i quali: Terzoocchio delle edizioni Bora di Bologna, Flash Art di Milano Julier di Trieste ed il genovese ExArte .
Inoltre affiancherà attivamente come consulente la famosa galleria d’Arte avanguardistica Fluxia durante tutto il periodo della sua esistenza.
Ha partecipato all’organizzazione di numerosi eventi, tra i quali l’anniversario del centenario dell’Istituto d’Arte di Chiavari e la commemorazione del trentennale della morte del poeta Camillo Sbarbaro a S. Margherita L.
Nel 2010 pubblica il suo primo romanzo: “La strana faccenda di via Beatrice D’Este”, un giallo fantasioso e “intimista”.
Nel 2018 pubblica il fantasy storico “Tiwanaku La Leggenda” ispirato alla storia ed alle leggende delle Ande pre-incaiche.
Attualmente collabora con alcuni blog e riviste on-line come “Chili di libri, “Accademia della scrittura”,
“Emozioni imperfette”, “L’artefatto”,” Read il magazine” e “Hermes Magazine” occupandosi ancora di critica d’arte e di recensioni letterarie.