Fonte foto: Stefano Serri, ritratto di Antonia Calabrese
La traduzione di poesie è trasporto di voci, “a quel modo che una bella musica si ripete sopra un diverso istrumento” (Madame de Stael, Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni, 1816). Attraverso l’esperienza di Stefano Serri, entriamo nel respiro di questo impegno.
L’intervista
Stefano Serri (Sassuolo 1980), infermiere, laureato in Discipline teatrali al Dams di Bologna, vive a Fiorano Modenese. Annovera diverse pubblicazioni, tra poesia, narrativa e teatro. Ha curato e tradotto una ventina di volumi, da Jean Giraudoux a poeti contemporanei come William Cliff.
Quando hai intrapreso l’attività di traduzione?
“È iniziato tutto con la poesia. Sono un traduttore dilettante, lo dico per rispetto di chi ha compiuto studi specifici nel campo delle lingue e della traduzione. Le lingue le ho studiate lungo il percorso scolastico senza particolari successi, ma continuando a coltivarle, da autodidatta, per arricchire tavolozza e orchestra della mia prima passione, la scrittura. A forza di provare a tradurre qua e là, ho incontrato la fiducia di Chiara De Luca, traduttrice e poetessa, e delle sue Edizioni Kolibris; da lì la prima pubblicazione nel 2013, ‘Il paese nudo’ del poeta caraibico Ernest Pépin. Una fiducia rinnovata, anche da altri editori, in particolare Claudio Maria Messina e Marco Catucci per la Biblioteca del Vascello (Robin edizioni) e Fabrizio Zollo (Edizioni Via del Vento).”
Che cosa significa per te tradurre poesia?
“Essere meno soli. Tradurre poesie (preferisco usare il plurale) è rileggere e riscrivere. Riscrivere è lettura al quadrato, primo passo del critico, è stare dentro e dietro il testo oltre che davanti. Ma è anche creazione, il traduttore è autore: si stanno scrivendo poesie, poesie che sono opere nuove, mai state, dove il testo di partenza è l’aiutante (piedistallo o trampolino, cornice o telaio) per quello che si vuole scrivere. Le poesie sono occasioni per nuove poesie.”
La tua formazione è ricca ed eclettica, riesci a coniugare la professione di infermiere con la ricerca artistica e letteraria. Quale momento della tua giornata dedichi alla scrittura e alla traduzione?
“Se si ha un lavoro che segue dei turni, momenti fissi della giornata non esistono più, per nessuna attività, nemmeno per dormire; si impara da un lato a relativizzare certi schemi (ogni momento è buono) ma anche ad approfittare di una pausa insperata, compresa l’insonnia. Ho sempre raggranellato i momenti per la scrittura; credo basti poco, ma tutti i giorni, soprattutto per i lavori di correzione e revisione dei testi, processi molto più fertili che aridi. Penso di essere più formica che cicala. ‘Nulla dies sine linea’ non è un rigido programma operativo, ma un bellissimo manifesto di vita.”
Come trovi e selezioni autori e testi?
“Ogni libro ha una sua storia. Alcuni testi li ho scelti io, altri mi sono stati proposti. Prima di rifiutare, penso che ogni nuova traduzione smuoverà il mio baricentro e, se non farò il passo più lungo della gamba, imparerò una nuova danza. Un autore mi ha proposto i suoi testi e sono nati i due volumi di Yannis Livadas, ‘La Chope Daguerre’ (Kolibris 2020) e ‘Il grasso della mosca’ (Campanotto 2021). A volte propongo l’autore e con l’editore si decide l’opera, o viceversa; di alcuni, come Giraudoux e Han Ryner, ho tradotto più testi, e spero di poter continuare questa frequentazione. Si accolgono occasioni, rabdomanti, si stuzzica il caso, si accetta di girare a vuoto, si chiede, si risponde: il mare della letteratura è grande abbastanza per tutti.”
Di fronte a scritture lontane nel tempo, rispetti la distanza storica e stilistica o avvicini i lettori attualizzando?
“Mi sono occupato perlopiù di testi abbastanza recenti, dal XIX secolo ad oggi. Nessun paradigma a priori. Il testo, l’occasione, la destinazione, possono influenzare le scelte. Il teatro, ad esempio. Traducendo drammi, la prospettiva della messa in scena può spingere verso un’attualizzazione, ma un linguaggio complesso e stratificato o la bellezza della parola poetica possono richiedere spazio e cura. Mi piace provare a sfidare il testo, affrontando intraducibili giochi di parole, riferimenti geografici e storici, senza ricorrere a lunghe e complicate note, che sono invece il cuore di un’edizione di tipo critico.”
I tuoi lavori più recenti spaziano dall’atmosfera parigina conviviale e ironica degli “Idropatici” sino alla dimensione più intima e periferica della poetessa canadese Louise Morey Bowman. È possibile, pur nell’evidente eterogeneità, rintracciare un filo rosso?
“Periferica: è la parola giusta. Il traduttore ha un potere: salvare gli autori e i testi dimenticati (a volte, chissà, dimenticati a ragione). Gli ‘Idropatici’ parla soprattutto di poeti minori, rimasti schiacciati dalla fama dei loro compagni Verlaine e Rimbaud. Non si tratta di snobismo; mi sono occupato anche di autori tutt’altro che marginali come Verne, Gide o France. E poi c’è il rischio emozionante di tradurre per primi un testo nella propria lingua: non è mettere una bandierina su un territorio conquistato per primi, ma aprire la porta di casa a chi non c’era mai venuto.”
Condivideresti dei versi che hai tradotto e che ti hanno particolarmente colpito?
“Scelgo quattro versi senza titolo di Jean-Baptiste Para, tradotto nell’antologia ‘La forma esatta dell’incerto’ (Kolibris 2014).
Suivre du doigt
Le cartilage d’une oreille
Puis reporter le dessin sur une carte
Et se remettre en chemin
Seguire con il dito
La carne di un orecchio
Poi copiarne la traccia su un biglietto
E rimettersi in cammino”
Quali consigli puoi dare a chi vuole cimentarsi nella traduzione?
“Umiltà: se editori e scrittori propongono qualcosa, provare ad accettare, anche se non corrisponde al nostro primo desiderio.
Costanza: ogni romanzo è fatto di capitoli, che son fatti di paragrafi, che son fatti di frasi… una frase al giorno è poco, ma tutti i giorni è tutto. Comunque, meglio un racconto finito di un romanzo abbandonato, meglio poco che niente.
Curiosità: scartabellare, sfogliare, frugare archivi, accarezzare titoli.
Speranza: accettare che un testo tradotto rimanga qualche anno nel cassetto.”
Salutiamo i lettori di Hermes Magazine con una tua poesia!
“Scelgo una poesia di una raccolta di prossima pubblicazione, ‘Un gatto steso al sole’; è breve e mi sembra utile in questo momento storico dove preoccuparsi e occuparsi del mondo si confondono.
LE ROSE
Di molte cose
le rose
non sanno l’esistenza –
dei poeti, della scienza, del colore
che traballa
se arriva la farfalla.”
Laureata in Lettere moderne all’Università di Bologna, collaboro con il Poesia Festival e sono redattrice di «Hermes Magazine» e di «Laboratori Poesia». I miei versi sono stati selezionati nello spazio La bottega di Poesia de «La Repubblica» (Bologna, maggio 2019), nell’Almanacco «Secolo Donna 2022» (Macabor Editore 2022), in vari concorsi poetici e per riviste on line. Nel 2020 ho pubblicato la mia prima raccolta di poesie, Cosa resta dei vetri (Corsiero Editore), e nel 2023 ho curato l’antologia Il grido della Terra (Macabor Editore).