Fonte foto: Elisa Nanini
Una radice di percosse
La paura, parola legata alla radice indoeuropea pat- che letteralmente significa ‘percuotere’, incontra i poeti sulla soglia dell’indicibile, scavando nella doppia dimensione fisica ed emotiva del turbamento, dell’essere colpiti. Un senso di incombenza e annientamento permea immagini e suoni fino a trasportare nelle pagine la scossa di brividi e attese, scene di lotta, fuga o immobilità.
A partire dal colpo e dalla percezione del limite, versi di terrore, tensione e disorientamento interrogano lo stesso spazio di sopravvivenza dell’io e del canto, cercano attraverso la sofferenza una possibile catarsi. In particolare, Marco Marangoni nel suo approfondimento La poesia e la paura, pubblicato nel 2015 su Griseldaonline, sottolinea come, pur con significative differenze tra antichità e modernità, la paura dentro la poesia si relazioni all’angoscia, al “pensiero negativo”, alla finitezza e alla caducità:
“Parafrasando Heidegger di Essere e tempo, la paura che interessa, dall’interno, la poesia è l’angoscia (Angst). Cioè il darsi del ‘negativo’ che delimita l’esser-ci. La poesia infatti, meglio di altri linguaggi, piuttosto obbedienti alla ragione impersonale e giudicante, sarebbe in grado di portare a linguaggio la percezione affettiva e ostensiva del dato negativo, del ‘non’.”
Paura ed epica: mito, guerra e sangue
Paura e morte si intrecciano nella mitologia greca, costellando di sfide e lutti il cammino degli eroi.
Sul cruento campo di battaglia si raccolgono le divinità che personificano la guerra e la paura, Ares e i suoi figli Fobos (Paura) e Deimos (Terrore), in un vortice di distruzione e violenza.
Il nesso tra sangue, Ade e paura si conferma nella consacrazione al dio Fobos dell’acero rosso, che, con le sue foglie autunnali dal colore acceso e sanguigno, risveglia e trasmette il ricordo nefasto delle ferite e della guerra.
L’epica omerica ritrae con straordinaria icasticità la sintomatologia della paura, come esemplifica, nel terzo libro dell’Iliade, la descrizione di Paride Alessandro davanti a Menelao (vv. 33-35, trad. di Rosa Calzecchi Onesti):
“Come uno, veduto un serpente, fa un balzo indietro
fra gole di monti, gli prende il tremore i ginocchi,
e fugge e il pallore gli invade le guance”
Il senso della vista veicola la paura, animando l’opposizione predatore-preda, attacco-fuga. La similitudine con la visione di un serpente restituisce il quadro di uno spavento irrefrenabile: di fronte alla minaccia della morte, una reazione incontenibile mette a repentaglio l’onore e il prestigio sociale del guerriero troiano, esponendolo all’accusa di viltà all’interno della ‘cultura di vergogna’. La paura colpisce, batte dentro fino a farsi corpo, “balzo indietro”, “tremore” e “pallore”.
Terrore e ombre nella poesia Il corvo di Poe
La paura nei versi si fa carico delle ombre e dell’ignoto, sprofondando nella dimensione onirica.
Maestro del terrore, Edgar Allan Poe (Boston, 1809 – Baltimora, 1849) evoca nella poesia Il corvo (1845) un’atmosfera domestica macabra, dove uno stato di sospensione e ripetizione materializza l’incubo. Attraverso una conversazione surreale tra un uomo in lutto per la sua amata e un corvo, si impone un dolore senza via d’uscita, una domanda costante cui segue un’eterna e onomatopeica risposta negativa: “Nevermore” (“Mai più”).
Qui l’ultima strofa (trad. di Antonio Bruno):
“XVIII.
E il corvo, non svolazzando mai, ancora si posa, ancora è posato
sul pallido busto di Pallade, sovra la porta della mia stanza,
e i suoi occhi sembrano quelli d’un demonio che sogna;
e la luce della lampada, raggiando su di lui, proietta la sua ombra sul pavimento,
e la mia, fuori di quest’ombra, che giace ondeggiando sul pavimento
non si solleverà mai più!”
Il corvo, presenza sinistra tra il profetico e il demoniaco, sovrasta il busto di Pallade Atena, dea della saggezza, suggellando il dominio dell’irrazionale. Il tormento per la perdita resta insieme alle ombre, schiaccia l’anima a terra con una sentenza di lacerante oscurità.
Franco Loi: “scrivere è la paura”
Angoscia e inquietudine pervadono anche la poesia contemporanea, affacciandosi su un sentimento di precarietà condivisa.
La produzione poetica di Franco Loi (Genova, 1930 – Milano, 2021), scritta in un dialetto milanese aperto a diverse influenze, è intessuta di intima paura e sente il trascorrere del tempo in un’intensa dialettica di amore e morte che restituisce significato all’esistenza.
Una sua poesia da Amur del temp (Crocetti 1999):
“Stu mancament del mund me fa paüra,
stu vöj de carna che par restreng j òmm,
quèl gran silensi che passa ne la sera
e se mí ciami l’è silensi amô.”
Questo mancamento del mondo mi fa paura, / questo vuoto della carne che pare stringere gli uomini, / quel gran silenzio che passa nella sera / e se io chiamo è silenzio ancora.
La paura per “questo mancamento del mondo” avanza in una tragica sottrazione. Con grande forza espressionistica, Loi denuncia l’incombere dell’annichilimento, un “vuoto della carne che pare stringere gli uomini” fino al silenzio.
Per Loi è proprio questa vertigine la scrittura, cercare di graffiare il battito dell’aria.
Dalla raccolta Isman (Einaudi 2002):
“Oh, scrìv l’è la paüra, un buff del fiâ
o l’aria che cuj man cèrcum tucà,
fantasma l’è del corp e de la vita”
Oh, scrivere è la paura, un soffio del fiato / o l’aria che con le mani cerchiamo toccare, / fantasma è del corpo e della vita
Laureata in Lettere moderne all’Università di Bologna, collaboro con il Poesia Festival e sono redattrice di «Hermes Magazine» e di «Laboratori Poesia». I miei versi sono stati selezionati nello spazio La bottega di Poesia de «La Repubblica» (Bologna, maggio 2019), nell’Almanacco «Secolo Donna 2022» (Macabor Editore 2022), in vari concorsi poetici e per riviste on line. Nel 2020 ho pubblicato la mia prima raccolta di poesie, Cosa resta dei vetri (Corsiero Editore), e nel 2023 ho curato l’antologia Il grido della Terra (Macabor Editore).