Fonte foto: Elisa Nanini
Le conchiglie: una storia di poesia e meraviglia
Le conchiglie, depositate sulla riva, custodite in bacheche o in opere d’arte, rallentano il nostro passo, attirano l’attenzione: nel caleidoscopio di forme e colori scatta un vero incontro.
Involucri protettivi di molluschi, le conchiglie sono scrigni di vita, fungono da cassa di risonanza di onde, simboli e ricordi. Non casuale è, infatti, la loro connessione a miti e a riti di genesi e rinascite: basti pensare alla versione omerica della nascita di Afrodite, dea dell’Amore e della Bellezza, da una conchiglia o al fonte battesimale e alle acquasantiere. La loro immagine è strettamente legata alla fertilità, alla purificazione, al sacro e alla conoscenza.
Il desiderio di raccogliere e di ascoltare il mare nelle piccole cose rende le conchiglie nei secoli un serbatoio inesauribile di poesia e meraviglia.
I versi del poeta lirico greco Alceo, vissuto tra VII e VI sec. a.C., testimoniano la longevità poetica di questo motivo marino. In un’associazione di incanto e fanciullezza, il frammento 359 Voigt pone come protagonista la conchiglia, evidenziandone la doppiezza elementare costitutiva, rocciosa e acquatica, e la forza evocativa. Di seguito, la riscrittura poetica curata da Salvatore Quasimodo ne I lirici greci (1940), Conchiglia marina:
“O conchiglia marina, figlia
della pietra e del mare biancheggiante,
tu meravigli la mente dei fanciulli.”
Personificata, la conchiglia viene appellata e riconosciuta nel ruolo attivo di stimolo sensoriale per le giovani menti, è il fulcro da cui si irradia la meraviglia e, di conseguenza, il viaggio emozionale e riflessivo.
Echi, fili invisibili e comunicazione: Vittorio Sereni
Le conchiglie, portatrici di echi, tendono fili invisibili, aprendo alla questione dei legami e della comunicazione. L’ascolto impone un interrogativo rispetto all’Altro da sé, cerca punti di intersezione nella vastità del mare e dell’esperienza.
La poesia Comunicazione interrotta di Vittorio Sereni (Luino, 1913 – Milano, 1983), contenuta ne Gli strumenti umani (Einaudi 1965), senza edulcorazioni e facili consolazioni, affonda questo quesito vitale di senso e nesso:
“Il telefono
tace da giorni e giorni.
Ma l’altro nel quartiere più lontano
ha chiamato a perdifiato, a vuoto
per intere settimane.
Lascialo dunque per sempre tacere
ridicola conchiglia appesa al muro
e altrove scafi sussultino fuggiaschi,
sovrani rompano esuli il flutto amaro:
che via si tolgano almeno loro.”
Nella seconda parte del componimento, caratterizzata da versi lunghi e dall’irruzione della dimensione marina nel domestico, il telefono è, per metafora, una “ridicola conchiglia appesa al muro” (v. 7). Questo “strumento umano”, adibito al contatto a distanza eppure rinchiuso nel silenzio, si mostra un mezzo insufficiente: oggetto depauperato della sua funzione primaria comunicativa, suggella i rapporti umani nel segno del negativo e della mancanza.
Nell’anti-idillio di una conchiglia inutile, le chiamate fatte e attese scorrono su rette parallele prive di una possibilità di incrocio, accomunate però da una stessa richiesta di reciprocità, la flebile speranza di solcare l’amarezza del “flutto” di una solitudine esistenziale.
Voci dopo la vita: le conchiglie di Vivian Lamarque
E proprio nella reciprocità, nella generosità di atti come raccogliere, ascoltare e condividere tracce, la poesia Queste conchiglie di Vivian Lamarque (Tesero, 1946), inserita in Poesie. 1972-2002 (Mondadori 2002), individua la chiave dell’immortalità.
“Queste conchiglie che ho trovato / saremo noi” (vv. 1-2): il ritorno attraverso la trasformazione in conchiglie schiude luci di continuità, consegna memorie come un messaggio dentro a una bottiglia.
Un susseguirsi di versi brevi e asciutti scandisce un’affermazione di voci dopo la vita, il riverbero di un “noi” al di là del tempo. La levigatezza lessicale assottiglia l’umano alla sua essenza ultima, a ciò che resta da scoprire sulla riva:
“Queste conchiglie che ho trovato
saremo noi
noi acquietati levigati
senza più dolori
di bei colori
poseranno le orecchie su di noi
per ascoltare
che rumore fa
il mare.”
Le conchiglie conservano e diffondono la grandezza del mare. Nel residuo, nel risicato all’osso, vibra l’immenso sulla Terra.
La permanenza accoglie la metamorfosi, si realizza nella scommessa di un dialogo tra passato, presente e futuro. Il dono dello scambio è la condizione per costruire ponti di sopravvivenza: il “noi” sarà il canto delle onde per chi porgerà l’orecchio.
Laureata in Lettere moderne all’Università di Bologna, collaboro con il Poesia Festival e sono redattrice di «Hermes Magazine» e di «Laboratori Poesia». I miei versi sono stati selezionati nello spazio La bottega di Poesia de «La Repubblica» (Bologna, maggio 2019), nell’Almanacco «Secolo Donna 2022» (Macabor Editore 2022), in vari concorsi poetici e per riviste on line. Nel 2020 ho pubblicato la mia prima raccolta di poesie, Cosa resta dei vetri (Corsiero Editore), e nel 2023 ho curato l’antologia Il grido della Terra (Macabor Editore).