Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay

Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay

Fonte immagini: per l'immagine di testa, dettaglio della cover italiana della prima edizione de Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay© 2001 Rizzoli.

Partiamo dal presupposto che, a meno che non abbiate passato l’ultimo quarto di secolo su Saturno, è impossibile che non abbiate mai sentito parlare de Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay. Detto questo, non so se qualcuno ve l’ha mai detto: devi leggere Kavalier e Clay, parla di fumetti. Ti piacerà.

Allora. No. Manco per niente. Parla di fumetti? Cavolo, sì. Parla anche di fumetti, ma non come pensate voi. Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay, Premio Pulitzer 2001, è un libro capace di accontentare qualunque tipo di lettore. Tira fuori un argomento che ti interessa: c’è. Esso parla principalmente di un’epoca, la Golden Age: della sua grandiosità e dell’avvicinarsi della sua fine. Certo, è vero: il libro è diventato un vero e proprio cult tra gli appassionati di fumetti, a causa del fatto che esso ripercorre la storia dei comics partendo proprio dal 1939, poco dopo la creazione di Superman, e arrivando fino agli anni ’50, alla pubblicazione di quel fatale libro di Frederic Wertham, The seduction of the Innocent, che di fatto, accompagnato dall’incipiente maccartismo, ha introdotto il Comics Code, la censura, e la fine di quest’epoca grandiosa (moltissimi anni dopo lo psichiatra ritratterà tutte le sue affermazioni riconoscendo l’immenso danno che ha causato, ma ormai questo era fatto; e questa, comunque, è tutta un’altra triste storia).

Ecco, dunque: il libro parla di fumetti? No, non proprio. Il fumetto è una scusa, rappresenta l’epoca: in quanto a temi invece troviamo trattato praticamente tutto. Tutto quello che è accaduto in questa, anzi, queste epoche (perché talmente ricco è questo periodo di tempo da essere una vera e propria epopea), e molto di più. Qui si respira aria della New York d’epoca, sembra di guardare un film in bianco e nero, di leggere un vecchio fumetto americano da 1 Dime. È, di fatto, un altro modo di vedere C’era una volta in America. In effetti l’intera opera si può leggere anche come una lunga epopea del sogno americano: della ricerca degli ideali, della conquista della propria affermazione, al sentirla come un diritto; fino alla sconfitta e alla disillusione che inevitabilmente ne deve per forza conseguire. Ciò è dovuto soprattutto alla scelta artistica fatta da Chabon di inseguire la storia del fasto americano attraverso gli autori e i disegnatori di fumetti (ma anche scrittori di fantascienza, di pulp, della pubblicità e in generale della cultura pop), che erano in larga preponderanza ebrei. Questo perché essi si avvicinarono al campo dei fumetti e delle riviste dato che in qualche modo gli era impedito di avvicinarsi a settori artistici più rispettabili; ma soprattutto, suggerisce l’autore, perché fumetti e riviste pulp sono di fatto la base di una perfetta mitologia americana, nella quale tali autori vedevano la continuazione della loro tradizione (non è un segreto per nessuno che Kal El, il nome di Superman, in ebraico significa “voce di Dio”).

Si parla, quindi, nel complesso, di Kabbalah ed ebraismo, di american dream, di grande depressione e di disillusione, della fantastica New York della Golden Age. Ma anche di prestigiatori, di omosessualità, il tutto circolante attorno a un triangolo amoroso e di affetti. Siamo, è il caso di dirlo, sulle tracce del grande romanzo perfetto. Non è proprio lui solo perché la perfezione non esiste; ma di sicuro quello che le 821 pagine del romanzo ci restituiscono è un affresco monumentale e struggente degli anni che hanno reso grande l’America, dal momento in cui si è rialzata dal crollo delle borse al momento in cui è caduta nella trappola del controllo che essa stessa, involontariamente, si è costruita attorno.

Si rivelano inoltre particolari della vita di Harry Houdini (ma dove li avrà mai trovati, poi); nelle varie discussioni tra i protagonisti si spiega poi tra le righe come si fanno i fumetti, e soprattutto, si trattano i procedimenti delle controversie sul diritto d’autore meglio che in qualunque testo di legge. Ma si parla anche di come si vive tra i ghiacci dei poli, per dire.

Insomma, in queste pagine c’è l’entusiasmo, c’è la vita.

E c’è un metodo di scrittura, quello di Michael Chabon, che mescola realtà e fantasia in un modo subdolo, meschino, compiacente. L’Escapista, il fumetto descritto nelle sue pagine, usciva davvero, sembra. Nella montagna di migliaia di titoli che anno dopo anno si erano succeduti in tutto questo decennio di storia prima o poi deve essere uscito, no? Magari a basse tirature, magari non in modo continuativo. Ma non sembra strano immaginare L’Escapista in edicola a fianco a un numero di Action Comics o di All Star Comics. C’era. C’è stato. Deve esserci stato. Non è possibile che non ci sia stato, dannazione. È descritto talmente tanto bene il mondo che lo vede collocarsi che non è possibile che sia solo un’invenzione!

Stan Lee, Jack Kirby, Joe Shuster Jerry Siegel sono qui, assieme a tanti altri, nel libro, a raccontarci la loro realtà e a ficcarci anche il personaggio di Kavalier e Klay in mezzo. E oltre a loro altri personaggi storici come Orson Welles, Salvator Dalì, il già citato Fredrick Wertham compaiono a fare da cornice a un’epoca che è stata reale almeno quanto il fumetto e le vite dei due protagonisti.

Tutti questi personaggi sono qui a confermarci di averne parlato, qualcuno di averci lavorato, tanti che l’hanno letto. E nel frattempo i suddetti raccontano le loro storie (curioso che Tiziano Sclavi solo due anni prima abbia fatto la stessa cosa nel suo Non è successo niente). Nel frattempo però tirano venti preoccupanti tra le pagine finali del libro: si parla di Comics Code, il codice censorio introdotto dal libro di Wertham (solo Cesare Lombroso è riuscito a fare più danni) che riuscì ad arrivare in tutto il mondo (da noi era il terribile GM di Garanzia Morale). Tra Wertham e il maccartismo (che si rafforzavano a vicenda) la censura era dietro l’angolo (Woody Allen avrebbe raccontato lo stesso pezzo di trama nel suo film Il prestanome).

Difficile dire cosa non sia vero in questo continuo reportage di realtà. Un gioco particolarmente interessante da fare con questo libro, durante la lettura, è quello di attaccarsi a Google a cercare conferma, smentita o revisione dei fatti in esso narrati uno dopo l’altro. In realtà quel che viene raccontato è praticamente tutto vero, tranne gli elementi di pura fantasia (i personaggi, l’Escapista) e i dialoghi e gli eventi che raccordano i primi ai secondi (nella qual situazione, spesso, possiamo trovarci di fronte ad eventi realmente accaduti modificati per farci stare anche gli altri).

Ma che cosa è il falso, poi? La vita editoriale raccontata nel libro attorno al personaggio è talmente entusiasmante da portare la casa editrice Dark Horse a ripubblicare molte delle storie classiche dell’Escapista, così da aumentare maggiormente il gioco su quel che è esistito e quello che invece no.

Sono storie nuove, naturalmente. Ma scritte, disegnate e colorate come se fossero realmente degli anni 40, spesso come se fossero scannerizzate da vecchie stampe d’epoca (le pellicole originali in molti casi ormai sono perdute), e come se quelle vecchie stampe fossero realmente sbiadite, rovinate, spiegazzate). Un perfetto mokumentario ad impreziosire la già enorme opera di Chabon.

A volte il plausibile riesce ad esserlo talmente tanto da diventare realtà.

La storia

Siamo a fine ottobre 1939, New York. La mamma di Sammy, appena rientrata dal suo turno di notte da infermiera di reparto psichiatrico presso l’ospedale locale, entra in camera del piccolo e gli impone di fare spazio a suo cugino, un ragazzetto più o meno della sua età, magro e triste, appena arrivato da Praga. Si chiama Josef, spiega la madre di Sammy, ed è il figlio di suo fratello.

Dopo qualche minuto di imbarazzo, i due iniziano a parlare. Scopriamo che Sammy lavora nel magazzino della Empire Novelties Inc., un’azienda che produce paccottiglia tipo finti occhiali a raggi x e altre sciocchezze del genere che all’epoca venivano vendute per spedizione e pubblicizzate in appendice ai comics (i quali spesso venivano realizzati proprio dagli stessi produttori di paccottiglia unicamente per potervi apporre sopra la pubblicità), ma sogna di fare il disegnatore. Anche Josef sogna di fare il disegnatore, e sperava che il cugino potesse raccomandarlo. Figuriamoci. Partono quindi i flashback che costituiscono di fatto la prima parte del libro:

Josef (Joe) Kavalier, giovane ebreo con fortissimi velleità artistiche, fugge dalla Praga dell’occupazione nazista per cercare fortuna nella lontana, libera e promettente America. Lo fa da solo, con la famiglia che ha dato tutto affinché il viaggio del bambino potesse essere possibile; e lo fa, chiaramente, nella speranza di poter fare abbastanza denaro da poter poi aiutare i familiari a raggiungerlo. La prima parte del libro racconta quindi di questa profondissima ferita nell’Europa occupata e del dramma di una famiglia che si prodiga perché il piccolo possa vivere una vita diversa da quella che hanno avuto loro. Appare chiaro sin da subito al lettore che la tragedia è imminente. Ma già in questo dramma nella vicenda principale principia subito una trama supplementare, quella che vede il bambino riuscire a lasciare il continente nella cassa di quello che nella leggenda popolare era il famoso Golem, la statua di fango che raffigura il protettore della città boema, che comunque doveva salvarsi. Conosco una certa fetta di lettori che ha fortemente preferito questa parte di storia (che non è certo corta) al resto. Ma questo libro non parla di un dramma familiare, non parla dell’olocausto, né della seconda guerra mondiale e neppure del Golem.

Una volta approdato a New York, una volta conosciuto bene suo cugino Sammy Klayman (detto Clay), Joe comprende di essere approdato in una realtà dove gli emigranti diventano americani e gli orfani supereroi: quella dell’America del ’39, dove tutti i sogni e le aspettative avevano pieno diritto di potersi considerare reali. In tale realtà i due ragazzini cresceranno fino a diventare due uomini, e con loro cambierà il mondo che li circonda e la visione dello stesso. Oh, certo, col tempo riusciranno a creare il loro eroe: i due, uno disegnatore e l’altro in realtà più portato alla scrittura, finiranno per creare l’Escapista, il sensazionale supereroe della fuga che, con l’aiuto dei fidi aiutanti Omar, Plum Blossom e Big Al, lotta contro la malvagia organizzazione nota come La catena di ferro (raffigurazione personale del Terzo Reich, un po’ come l’Hydra la è nella Marvel) del terribile Attila Haxoff.

La stragrande maggioranza dei lettori ha preferito questa parte dove si racconta di  come siano riusciti a farcela, a diventare autori di fumetti (e di come questo comunque non abbia cambiato le loro vite). Ma no, nemmeno di questo parla il libro. Basta in realtà aprire gli occhi e leggere tra i grandi eventi che la trama racconta per accorgersi di quello che a volte è appena accennato e che è la vera storia di cui parla questo libro.

I protagonisti, in realtà, anche attraverso la creazione dello stesso, cercano entrambi di sfuggire dalla loro realtà (e lo faranno per tutta la vita), ma hanno modi diametricalmente opposti di farlo. Joe è sin dalle prime pagine del romanzo caratterizzato dalla fuga (da cui l’invenzione del personaggio), mentre Sam, che è fortemente ancorato alla realtà del suo presente, tenta di fuggire dal suo corpo affetto da poliomielite e preferisce la chiusura nella quale nasconde l’omosessualità nella realtà censoria che vive e che non sarebbe ancora pronta ad accettarlo (e guarda caso, l’orrore dell’epoca di Werther cui giungeranno cancellerà tutta la grandezza del sogno americano che li aveva accompagnati in tutti quegli anni ruggenti nei quali, però, giorno dopo giorno già andava delineandosi il momento della caduta degli stessi).

La stessa idea di fuga, e quindi gli stessi eventi del fumetto, arriveranno persino a dettare le azioni dei protagonisti lungo tutta l’epoea della storia. Da non sottovalutare che la compagna dell’Escapista, Luna Moth, è ispirata alla reale Luna Sacks, ragazza che assumerà un ruolo fondamentale nella vita dei due cugini. Il modo in cui Chabon racconta come la vita li abbia cambiati, come il mondo si trasformi e come (sin dall’inizio) la tragedia imminente, seppur non esplicita, sia evidente fa di questa storia un grande romanzo di formazione, che si muove tra i tempi, spazi ed illusioni fino a portarci ad aprire gli occhi, ahimè, sulla grande disillusione che ci attende al finire dei sogni.

Ecco di cosa parla questo capolavoro, semplicemente: degli orrori della guerra, del sogno americano, della cultura pop, degli eroi dei fumetti e i loro creatori, e delle celebrità del cinema, della musica, e dell’arte in generale. Dei fasti di tutto ciò e dell’ingresso nella vita di tutti i giorni che, è bene ricordarlo, grandi fasti non ne ha.

Ma che è comunque fantastica.

Parla delle fantastiche avventure di Kavalier e Clay. Perché la vita di chiunque può essere un grande capolavoro se raccontata nel mondo giusto.