Primo Levi: per non dimenticare “se questo è un uomo” e se continuerà ad esserlo

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Carissimi lettori delle pasticche letterarie, in questo mese di gennaio, ho voluto dedicare una pasticca molto amara (ma necessaria) alla grande forza di Primo Levi. E alla memoria che non deve morire mai in ognuno di noi.

La vita

Primo

Fonte foto: Gariwao

Primo Levi nasce il 31 luglio del 1919, in Piemonte, precisamente nella città di Torino, da due genitori praticanti la religione ebraica. Si diploma nel 1937 al liceo classico Massimo D’Azeglio e si iscrive al corso di laurea per diventare chimico, perché, come ogni ebreo che si rispetti aveva una vena matematica non indifferente. Si laurea nel 1941 a pieni voti e con lode, ma sul diploma di laurea, che dovrebbe essere uno delle migliori testimonianze dei sacrifici fatti, figura una precisazione che stona un po’, alla quale all’inizio il mondo non ha mai dato troppo peso: “di razza ebraica”.

La cattura

Comincia così, in modo un po’ strano, la vita da chimico, che lo porta a trasferirsi a Milano, fino all’occupazione nazista. Il 13 dicembre del 1943, il giorno di S. Lucia, viene catturato dalle S.S e successivamente trasferito al campo di raccolta di Fossoli (Modena) dove comincia la sua odissea e la tragedia di tantissimi altri ebrei, e non solo.

Auschwitz/Birkenau – “Arbeit macht frei”

Primo

Fonte foto: Il blog di Madrugada

Nel giro di poco tempo, infatti, il campo viene preso in gestione dai tedeschi, che deportano tutti i prigionieri in Polonia, nel lager di Auschwitz/Birkenau. Primo Levi solcherà l’ingresso dal cancello con la scritta “Arbeit macht frei” ovvero il lavoro rende liberi il 22 febbraio del 1944, tre mesi dopo la sua cattura. Auschwitz, racconta Levi nelle sue infinite e toccanti testimonianze che era “un nome privo di significato, allora e per noi”.  Qui, di fretta e sommariamente, veniva effettuata la selezione:

In meno di dieci minuti tutti noi uomini validi fummo radunati in gruppo. Quello che accadde degli altri, delle donne, dei bambini, dei vecchi, noi non potemmo stabilire allora né dopo: la notte li inghiottì, puramente e semplicemente” .

174517 – Un numero per riconoscersi

Primo Levi, in quel grande nulla, era diventato come tutti solo un numero cioè l’häftling (prigioniero) 174517, ma forse per il fatto di essere un chimico e di conoscere anche tedesco, viene messo a Monowitz, uno dei campi del grande comprensorio di Auschwitz/Birkenau, dove i prigionieri lavorano in una fabbrica di gomma (Buna).

I prigionieri si ritrovano in pochissimo tempo rasati, tosati, disinfettati  e costretti ad indossare una divisa a righe del campo come dei carcerati. Su ogni divisa c’è il numero cucito sul petto o tatuato a fuoco anche sul braccio.

La memoria e i suoi  testimoni

Primo Levi è tra i pochissimi a sopravvivere e far ritorno a casa sua, a Torino, dopo un lungo e avventuroso viaggio. Essendo stato testimone, come altri di cui abbiamo parlato in alcuni articoli precedenti, di tante atrocità, sente il dovere di raccontare quanto ha subito, visto e vissuto per mano dei nazisti: comincia a scrivere, in modo da elaborare così il suo grande dolore interiore nelle sue memorie.

Il rifiuto di “Se questo è un uomo”

Nel 1947 il manoscritto di Se questo è un uomo, viene rifiutato (si avete letto bene) dalle più grandi case editrici, pubblicato invece  dalla piccola De Silva. Soltanto nel 1958, molti anni dopo con l’uscita presso Einaudi il libro diventerà una delle più conosciute e apprezzate testimonianze sullo sterminio ebreo.

Nella prossima pasticca approfondiremo le opere di rielaborazione di questo grandissimo scrittore, testimone di una memoria che non ci dovrà mai lasciare.


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