“Autocritica”: Lorenzo Caschetta allo specchio

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Fonte foto: Patrizia Camedda

Tagliare, graffiare fino a scalfire la propria esistenza: Autocritica

Autocritica (AIEP Editore 2023) di Lorenzo Caschetta (Modena 1975) è una raccolta di poesie che mantiene un disegno unitario in quella difficile operazione analitica e chirurgica dello sguardo rivolto al proprio specchio.

Autocritica. Lorenzo Caschetta

Foto di Massimo Santunione

Con versi incisivi e colloquiali, l’autore si inoltra senza infingimenti ed edulcorazioni nel cuore della parola autocritica, riportando in superficie, tra ricordi, desideri, dubbi e paure, la dimensione del taglio e del riflesso dentro il giudizio. Da L’umore di ottobre:

Arma affilata

 

Il doppio taglio della sincerità

doveva ferirmi in qualche modo

presto o tardi: affonda

nella mattina che schiarisce

-sarà questo cielo arato dal vento

o il presentimento di morire solo-

e peggio per chi porti alla luce una verità.”

La lama della verità colpisce aguzza e lucente, la “mattina che schiarisce” è precipizio, caduta in una proiezione di solitudine fino alla sparizione.

In un mondo sempre più veloce e asettico, ferito dal consumismo, dalla pandemia e dalla guerra, si impone un interrogativo necessario sulla “facilità del male” e sulla “banalità del bene […] nelle intenzioni, nel quotidiano”.

All’attenzione viene richiamato, senza assoluzione, il ruolo del singolo nella catena di montaggio, il bisogno di graffiare, di imprimere un segno di vita sulla tela spoglia dell’esistenza. Dalla poesia Un chiodo:

“…Ora, da questo vuoto infettivo

ciascuno torni indietro da solo, se può

con il barlume che gli resti

nell’immensa ritirata.

 

Precipitato nel risveglio

non voglio sparire senza avere prima

graffiato il muro con un chiodo.”

I ricordi lucani e il bagaglio della povertà

Ad alleviare lo sconforto del contemporaneo rimangono forti gli echi delle origini lucane, percorsi dall’autenticità ruvida di luoghi e volti non idealizzati, eppure custodi di sensazioni vivide e intense. La natura e il duro lavoro restituiscono la profondità del respiro attraverso un tempo lento, come emerge dalla poesia I miei ricordi migliori:

“L’odore della terra lavorata

sotto l’ispido sole di Lucania,

profumo di zolfo nella vigna

-almeno una volta mi sono pulito

come potevo, con le foglie.

 

Affacciarmi alla ringhiera a respirare

l’aria che sale dal pollaio.

La conigliera, quell’alito pungente.

 

I muli all’imbrunire, la scia

di vapore animale, terrestre

e di sterco, le biglie nere delle pecore.

 

Questi i miei migliori ricordi d’infanzia.

Forse tu vieni da una favola più ricca.”

Una corporeità terrosa e pungente, stretta alla fatica e alla rinuncia, conserva il contatto con la vita attraverso la cura delle cose semplici. I piccoli dettagli si succedono con tagliente precisione per disperdersi nell’aria e sfumare nella lontananza di una “favola” agreste di scavo e umiltà.

Nelle pagine di Autocritica le immagini e gli odori dell’infanzia compongono un “rosario laico”, diventano una bussola oltre la memoria: si affacciano sul quotidiano e sul futuro imminente come denuncia dello spreco e insieme “paura della povertà”.

Proprio la povertà in tutta la sua spietata concretezza costringe infatti a una lettura dell’umano più ampia e sfaccettata, ricuce il contrasto tra essenziale e scarnificazione. Nella assertiva brevità della poesia Bagaglio intimo il peso della povertà si conferma valore intrinseco, qualcosa che tesse l’identità e non abbandona:

“Quando la civetta chiama lontano

rivedo Piazza del Municipio.

Rammendo i pensieri, annodo il senso.

Porto con me nelle contraddizioni

l’odore rassicurante della povertà.”

Rammendare e ricominciare: “far fiorire la sconfitta”

La ricerca di senso illumina le ferite, la necessità di rammendi e interventi sartoriali: pensieri e schegge di vissuto vengono riannodati nei versi da una visione d’insieme che prova a raccogliere i pezzi.

Di fronte alla precarietà umana e alla grandezza di domande destinate a rimanere senza risposta, si fa strada attraverso la scrittura un ricominciare “a capo e minuscolo” mentre “ogni giorno è terapia”. L’attesa di pace e guarigione si sporge verso l’apertura del mondo “oltre i vetri”, modella la parola nel tentativo di “far fiorire la sconfitta”.

Così nella poesia Saggezza di saggina “tra scapino e scorsoio” i resti accumulati rinascono in “rose di carta”, affermando una possibilità di fioritura e bellezza grazie a una prospettiva rinnovata e ampliata dall’esperienza:

“Fresco di garriti e rondini

fra scapino e scorsoio

tu componi rose di carta

– sai che mi incanto il potere dei fiori –

Ho perso i lacci delle scarpe anch’io

e riguadagnato lo sguardo,

un passo di danza appena accennato

ai piedi della propria caduta.

 

 a Mauro S.”

Dal dolore e dagli errori, dal fondo della “propria caduta”, si riscopre “il potere dei fiori”, l’importanza del cammino. Perdersi e apprendere è movimento, spinta creativa fino a un “passo di danza appena accennato”.


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