Fonte foto: Elisa Nanini
Il vino ci immerge con pienezza nell’atmosfera autunnale, tra sorsi, foglie, libri e caldarroste: i filari e i colori terrosi e riarsi scolpiscono nei nostri sensi l’arrivo di una nuova fase, facendo strada a un tempo dalla sottile grazia poetica e meditativa.
Una spontanea associazione vite-vita lega i grappoli e il loro prodotto al destino umano, sospeso tra forza creativa, bellezza e caduta, come suggeriscono gli icastici versi di Ottobre di Robert Frost (San Francesco, 1874 – Boston, 1963):
“…O silenzioso mite mattino d’ottobre;
lento comincia le ore di questa giornata.
Fa’ che il giorno ci sembri meno breve.
Non ci dispiace se tu dolcemente ci illudi,
illudici nel modo che tu sai.
[…]
Trattieni il sole con nebbie gentili;
incanta la campagna d’ametista.
Ma piano, piano!
Per amore dell’uva, se non altro,
i cui pampini bruciano nel gelo,
i cui grappoli andrebbero distrutti
per amore dell’uva lungo il muro.”
Paesaggi “d’ametista” infondono meraviglia e malinconia, rendendo l’uva e, di conseguenza, il vino protagonisti di riflessioni profonde sul raggio luminoso e cangiante dell’esistere.
Vino e poesia nell’antica Grecia: tra convivialità e divino
Nell’antica Grecia il vino è stato al centro di riti e usanze di grande importanza civile e letteraria. Tra questi, occupa un posto di rilievo il simposio, in quanto pratica sociale e culturale altamente rappresentativa dei valori della collettività: “bere insieme” durante il banchetto, riscaldati da parole, musica e danza, è infatti per i commensali un prezioso e inebriante stimolo al processo educativo e al consolidamento di un sentimento di fratellanza.
Bevanda sacra a Dioniso, dio di vitalità e di ebbrezza, il vino, col suo potere di rivelazione e trasformazione estatica, si stringe invero alla poesia e alla conoscenza, muovendosi tra convivialità e divino.
I componimenti del poeta lirico Alceo, nato a Mitilene e vissuto tra il VII e VI sec. a.C., si inseriscono in questo contesto e ruotano intorno all’impegno politico, al mito, all’amore e alla celebrazione del piacere. In particolare, nella sua produzione più tarda consacra il vino a unico fedele amico, specchio dell’uomo e rimedio contro ogni male.
Di seguito, il frammento 346 (trad. di Salvatore Quasimodo):
“Beviamo.
Perché aspettare le lucerne? Breve il tempo.
O amato fanciullo, prendi le grandi tazze variopinte,
perché il figlio di Zeus e di Sémele
diede agli uomini il vino
per dimenticare i dolori.
Versa due parti d’acqua e una di vino;
e colma le tazze fino all’orlo:
e l’una segua subito l’altra.”
Un energico invito al bere risuona, avvolgendo la fugacità del tempo e le afflizioni umane in un sovversivo oblio conviviale. Con la promessa ristoratrice di un attimo pieno, appagante e liberatorio, vino e buona compagnia si oppongono al passare impietoso degli anni e al dolore, in un’accezione qualitativa e intensa del vivere.
Elogio al vino nella modernità: Baudelaire
Charles Baudelaire (Parigi, 1821 – Parigi, 1867), nella raccolta I fiori del male (1857) dedica al vino una sezione di cinque poesie, evidenziandone tutta la concreta complessità dentro una realtà parigina ormai inaridita e spenta.
Nella poesia L’anima del vino è la bevanda stessa a essere voce di una “luminosa canzone” consolatoria. Qui le prime tre strofe, tradotte da Giovanni Raboni:
“Nelle bottiglie, a sera, l’anima del vino
cantava: «O uomo, dalla mia prigione
di vetro e ceralacca, sventurato che amo,
ti giunga una fraterna, luminosa canzone!
Io so quanto sudore e quanta pena
e fiammeggiar di sole sull’ardente collina
servano a darmi l’anima e la vita:
ma non sarò né ingrato, né maligno,
perché immensa è la gioia di cadere
nella gola d’un uomo sfibrato dal lavoro,
e nel suo caldo petto so scavarmi una tomba
ben più dolce di un’algida cantina…”
Immagini di esultanza e afflizione si integrano nell’incontro tra vino e uomo: la prigionia dell’uno e la sofferenza dell’altro trovano sollievo in un petto che è “tomba” e, insieme, eco di calore umano.
Con gratitudine per la vita ricevuta, il vino restituisce colori e passioni, suggellando nell’ossimoro, nella “gioia di cadere”, condivisione e vicinanza.
La fiamma del vino: il bevitore solitario nei versi di Caproni
Anche Giorgio Caproni (Livorno, 1912 – Roma, 1990) si affaccia con mistero e profondità al tòpos letterario del vino nella raccolta Il franco cacciatore (1982), come illustra la poesia Delizia (e saggezza) del bevitore:
“Bicchiere dopo bicchiere.
D’un bel rosso.
Acceso.
In fiamma con la trasparenza
dell’albero.
È solo
(è sera) al tavolo
d’uscio dell’osteria.
Guarda la via andar via
verso il bosco e il buio.
Sa l’ombra.
Ma è in allegria.
Carezza la bottiglia
con mano amorosa.
(Beve vino, o una rosa?)”
Una figura solitaria si staglia nel chiaro-scuro ripetitivo e desolato di un’osteria, al confine tra interno ed esterno, tra luce e buio, mentre guarda “la via andar via”.
Eppure il “ma” avversativo che introduce l’“allegria” apre a una nuova chiave di lettura, a un quadro di complicità amorosa tra bevitore e bevanda in grado di capovolgere l’oscurità e l’“ombra” in intimità e “saggezza”. La musica dei versi attraversa l’impenetrabile semplicità degli oggetti quotidiani, cogliendo nella “fiamma” accesa del vino rosso una possibile “rosa” della solitudine.
Laureata in Lettere moderne all’Università di Bologna, collaboro con il Poesia Festival e sono redattrice di «Hermes Magazine» e di «Laboratori Poesia». I miei versi sono stati selezionati nello spazio La bottega di Poesia de «La Repubblica» (Bologna, maggio 2019), nell’Almanacco «Secolo Donna 2022» (Macabor Editore 2022), in vari concorsi poetici e per riviste on line. Nel 2020 ho pubblicato la mia prima raccolta di poesie, Cosa resta dei vetri (Corsiero Editore), e nel 2023 ho curato l’antologia Il grido della Terra (Macabor Editore).