Fonte foto: Elisa Nanini
Mattoni, per costruire e ricordare
I mattoni, come ruvidi colori primari di costruzione, si dispongono, pezzo dopo pezzo, nello spazio e nel tempo, facendosi testimonianze di esperienze e movimenti.
La nostra stessa percezione di interno-esterno trova la sua ossatura profonda nella somma dei mattoni, nella scansione meticolosa dietro alla verticalità compatta dei muri. Le architetture disegnano le mappe delle città, condizionano il nostro sguardo e i nostri spostamenti. Così i mattoni, a vista o svelati dall’intonaco scrostato, sono la radice di percorsi possibili, svolte e rifugi.
Non di meno, i processi e le evoluzioni di case, palazzi e strutture si specchiano con le tappe cruciali della vita. Dall’infanzia e oltre la morte, i mattoni non smettono di raccontare ciò che siamo e ciò che siamo stati, facendo atto di resistenza e continuità persino di fronte alle atrocità della guerra: l’amara, e purtroppo attuale, visione di distruzione e lacerazione degli edifici denuncia e commemora l’umanità ferita nelle fondamenta.
La poesia, connessa etimologicamente col fare artigiano e la creatività, non può non raccogliere la vastità dell’immaginario dei mattoni, nel segno del costruire e del ricordare.
Mattoni bolognesi: “Nella piazza di San Petronio” coi versi di Carducci
I rossi mattoni racchiudono “l’anima de i secoli”, sono il canto silente di una stratificazione storica.
Basilica di San Petronio, Bologna.
La poesia Nella piazza di San Petronio di Giosuè Carducci (Valdicastello, 1835 – Bologna, 1907), contenuta nelle Odi barbare (Zanichelli 1877), attraversa “la fosca turrita Bologna” con ammirazione e nostalgia:
“…Su gli alti fastigi s’indugia il sole guardando
con un sorriso languido di vïola,
che ne la bigia pietra nel fosco vermiglio mattone
par che risvegli l’anima de i secoli,
e un desio mesto pe ‘l rigido aëre sveglia
di rossi maggi, di calde aulenti sere,
quando le donne gentili danzavano in piazza
e co’ i re vinti i consoli tornavano.
Tale la musa ride fuggente al verso in cui trema
un desiderio vano de la bellezza antica.”
Mediante la ripresa metrica del distico elegiaco e un lessico altisonante, Carducci riecheggia la magnificenza medievale, tramandata dalla luce su pietre e mattoni. Gli “alti fastigi” accendono il “desiderio vano de la bellezza antica”, nel sentimento di uno scarto insanabile tra un passato idealizzato pieno di glorie e un presente cupo e privo di eroismo.
I mattoni e la “Fine dell’infanzia”: la poesia di Montale
Intrisi di giochi infantili perduti sono invece gli “annosi mattoni” della poesia Fine dell’infanzia di Eugenio Montale (Genova, 1896 – Milano, 1981), inserita negli Ossi di seppia (Gobetti 1925):
“…Nella conca ospitale
della spiaggia
non erano che poche case
di annosi mattoni, scarlatte,
e scarse capellature
di tamerici pallide
più d’ora in ora; stente creature
perdute in un orrore di visioni.
[…]
Ah il giuoco dei cannibali nel canneto,
i mustacchi di palma, la raccolta
deliziosa dei bossoli sparati!
Volava la bella età come i barchetti sul filo
del mare a vele colme…”
Il paesaggio marittimo ligure dell’infanzia del poeta, scabro e riarso, si dispiega attraverso verbi al passato, in un vivo contrasto tra la sponda “ospitale” e l’“orrore di visioni”. La presenza umana viene introdotta nel componimento a partire dalle “poche case […] scarlatte”: i mattoni sono un riferimento concreto e persistente, un baluardo della dimensione domestica e affettiva. Il senso di familiarità si stempera però con gli elementi naturali, prima protagonisti dei vecchi giochi e adesso avvolti da un’aura sinistra che manifesta il passaggio traumatico dalla “bella età” illusa al dubbio adulto dell’“ora che indaga”.
Poesia e cinema: “I madéun” di Guerra
I mattoni ritraggono icasticamente solidità e casa, ma anche lavoro e fatica.
Non casualmente, mattoni, poesia e cinema si intrecciano nell’attività e nella ricerca di Tonino Guerra (Santarcangelo di Romagna, 1920 – Santarcangelo di Romagna, 2012), poeta e sceneggiatore.
La poesia I madéun (I mattoni), riadattata per il film Amarcord (1973) con la filastrocca del muratore Calzinàzz, ben esemplifica l’attenzione di Guerra verso la Romagna umile e fragile.
“I MADÉUN
E’ mi nomi e féva i madéun
e’ mi ba e féva i madéun
mè a faz i madéun: os-cia i madéun!
Mèla, disméla, al muntagni ad madéun
e mè la chèsa gnént.
Ò fat la chesa nova de’ Sufraz
ò fat tòt quant al chèsi de’pasègg,
ò fat al tòri, i péunt e dì térazz,
ò fat la véla granda di padréun ch’la ciapa tòt e’ soul,ù
e mè la chèsa gnént.
I MATTONI – Mio nonno fabbricava mattoni / mio padre fabbricava mattoni / anch’io faccio mattoni, ostia i mattoni! / ma non ho la casa. // Ho costruito la chiesa nuova del Suffragio / le case nuove del centro / le torri i ponti i terrazzi / la grande villa del padrone che è tutta voltata nel sole / ma io la casa non l’ho.”
La genuinità terrena del dialetto restituisce la durezza di un paradosso: il peso dei mattoni si sussegue di padre in figlio, mentre i frutti dei sacrifici rimangono spesso un sogno proibito. Il costruire città senza una casa immortala l’ingiustizia, la mano tesa e sommessa di chi lavora e non può raccogliere. Ma proprio quel lavoro estenuante edifica un insieme di valori, ricordando lo sforzo per l’essenziale.
Laureata in Lettere moderne all’Università di Bologna, collaboro con il Poesia Festival e sono redattrice di «Hermes Magazine» e di «Laboratori Poesia». I miei versi sono stati selezionati nello spazio La bottega di Poesia de «La Repubblica» (Bologna, maggio 2019), nell’Almanacco «Secolo Donna 2022» (Macabor Editore 2022), in vari concorsi poetici e per riviste on line. Nel 2020 ho pubblicato la mia prima raccolta di poesie, Cosa resta dei vetri (Corsiero Editore), e nel 2023 ho curato l’antologia Il grido della Terra (Macabor Editore).