“New Jersey” di Marco Bini

Fonte foto: Poesia Festival, PH Mauro Terzi

Distanze, altezze e dispersione: “New Jersey” di Marco Bini

“Dovremmo credere ai cartelli quando come costole

spalancano al cuore spazio per pulsare,

se l’alluminio rifrange in cifre la misura

del divario fossile che basta a sentirci persi

o vederli come sfregi verticali al modo che abbiamo

di sbirciare l’orizzonte del nostro New Jersey

ma senza ponti per il centro dove agglomerarsi

nel nucleo vulcanico dove fabbricano la luce?”

 

New Jersey (Interno Poesia 2020): solo il titolo della raccolta di poesie di Marco Bini (Formigine, 1984) basta a metterci il mappamondo in mano e a far scorrere l’indice su una geografia remota, anticipando nel lettore un senso di viaggio e sconfinamento, “come quando in altalena la punta delle scarpe / bruciava i contorni sfiorando il centro del sole”.

In ogni sezione del libro, gli introspettivi rifermenti al panorama culturale americano (McCarthy, Springsteen, Dylan) si intrecciano continuamente a ulteriori suggestioni artistiche (Ghirri, Rodin), letterarie (Heaney, Montale), bibliche e storiche, ricucendo una territorialità estesa e, insieme, personale.

Il New Jersey, infatti, nel suo rapporto speculare e marginale rispetto alle luci mondane newyorkesi, ugualmente affacciate sul fiume Hudson eppure evidenti voci del “distacco”, non si esaurisce nell’immaginario di uno Stato d’oltreoceano, bensì incarna la condizione esistenziale della provincia, nello specifico, quella modenese. È la lente allegorica attraverso cui viene guardata l’amata pianura emiliana, motore di stupore, contrasti e ricordi.

“…Mi batte nel petto e spesso non vorrei,

ma quando il sole diventa alluvione sui viali

nell’arancio rivedo in ogni palmo le mie stature,

le duemila e più sfumature del mio distacco…”

Un ciclo cardiaco di sistole e diastole, di apparizioni e sparizioni, scandisce ininterrotte le distanze e le altezze con cui l’occhio del poeta si misura, accendendo la miccia che innesca la dispersione babelica, la lontananza e l’incomunicabilità. C’è però scintilla d’universo in questi “pezzi che nell’esplosione volano lontano”, un’insicurezza di approdo e, allo stesso tempo, un’affermazione di testimonianze e testimoni di vita: i “volt”, i “graffiti”, i “Lego”, le “vetrine dei brutti bar”, i “guantini”, i “libri”, “la matita preferita“, il “Museo di storia tedesca”, il “proiettile”, il “telescopio”, e così via.

Una costellazione di oggetti pulsa e sparpaglia il nostro essere al mondo, prima e dopo di noi, perforandoci come il vuoto nascosto sotto la scorza di un “modellino anatomico” o la scheggia che “dissanguò Acab nell’armatura”. E in questa concretezza di dettagli quotidiani di stanze e strade si avverte la “maglia rotta nella rete” di Montale.

“…Fratture e tagli sopravvivono al ricambio; e il vuoto.

 

 Nella Bibbia una scheggia dissanguò Acab nell’armatura.

Certe ferite trapelano nel fodero dei muscoli

squarci cosmici non più riempiti di materia

resti della pallonata in pieno petto di una supernova.”

Ricordi e desideri: la salvezza dell’irraggiungibile

Il ricordo è, etimologicamente, un richiamo al cuore, il desiderio una mancanza di stelle, di segni augurali: la dimensione affettiva di New Jersey oscilla tra questi due poli, premessa e promessa, ripercorrendo un incessante dialogo tra sogni, luoghi, ombre e volti.

In particolare, la poesia Mancano all’appello frasi ricorrenti, contenuta nella prima sezione, dedica a Vignola un commovente quadro di dolore e sottrazione. Mediante una corrispondenza strofica stringente (quattro quartine), Bini attraversa la sua città in un’eco di figure, parole e gesti interrotti.

“Mancano all’appello frasi ricorrenti,

facce dense e ferme, modi di portare il cappello,

motivi fischiati nel ricamo dell’aria

sotto le volte dei portici:

 

intonaco e malta in un posto di provincia,

spariti in un arresto all’alba senza testimoni.

È finito lo spazio per i morti: nessuno lo dice,

ma se taci senti tutto quello che succede.

 

Ad esempio il disabitarsi delle case che sognavi,

lo slittare delle pietre tra corso e castello.

Loro non ci sono: staranno nel fuorigioco abissale

avanti e indietro lungo i capillari di Vignola

 

Vecchia senza rispecchiarsi in nessuno e niente,

lontani da una lingua solo buccia e imitazione.

O disposti nella veglia sul fiume pronti al volo

come tortore sui fili sul finire della stagione.”

Confrontarsi con i morti e gli spazi bianchi lasciati è il sentimento di un monito: significa avere rispetto per il movimento delle pietre, denunciare un tempo che vede recise con violenza le sue stesse radici. La perdita degli anziani trafigge nella memoria la sfera privata e la Storia, illuminando la precarietà di un intero patrimonio generazionale di saperi, espressioni linguistiche e “modi di portare il cappello”.

I versi di Bini affermano il bisogno etico e civile di dare ascolto all’inascoltato, in un esercizio umano della sensibilità al di là della gratificazione consolatoria di una possibile comprensione. Anzi, proprio alla luce di un’insanabile disparità tra soggetto-oggetto, in una tensione che rimarca il limite osservando il cielo e il silenzio dei fiori, ricordare e desiderare salva l’irraggiungibile e ne conferma l’esistenza.

“…Ci sono anche i fiori, ma nessuno li capisce

aggrappati ai terrapieni, al riparo dei guard–rail:

ci lasciano andare, non dicono niente.

Crinali di colline al ritorno, cielo, cose che non so.

Continuate a darmi limiti,

 

spingetemi a frugare nel mucchio del visibile.

Diventate scrittura, accenti sul libro del mondo.

Parole:

            fatevi scrivere, tenetemi in vita.”