Prove per atto unico: Maria Benedetta Cerro

“Prove per atto unico”: Maria Benedetta Cerro

Fonte foto: Antonio Santamaria

Prove per atto unico di Maria Benedetta Cerro: la “città poetica”

Prove per atto unico (Macabor Editore 2023) di Maria Benedetta Cerro (Pontecorvo 1951) è una raccolta di poesie che sin dal titolo calca il palcoscenico della vita, immergendosi e perdendosi dentro una “città poetica” di verità e apparenze, di possibili cammini dell’io “al buio”:

“C’è una vita involontaria

                          parallela all’azione e alla ragione.

Vi si accede ad occhi chiusi

                                         e il versante è al buio.

È la città poetica

con i suoi labirinti e l’io errante e solo.

                 Non vi risiede l’invisibile ma l’indicibile.

Nessuna differenza

                                           tra il sembrare e il morire.”

Passi “ad occhi chiusi” riecheggiano nei versi un percorso individuale e condiviso di erranza e spaesamento, alimentando, tra scontro e incontro, limite e visione, una crescente domanda di riconoscimento e senso.

Prove per atto unico: Maria Benedetta Cerro

Come evidenzia Tommaso Di Brango nella prefazione, la metafora urbana dell’interiorità che attraversa tutta l’opera consegna nella sua fitta trama di “muri” e “crepe” l’evanescenza e insieme il peso delle singole esistenze lungo l’asse del tempo, abitando il mistero.

“Il tempo cronologico divenne oscillante

prolungandosi a volte – o contraendosi –

come a noi sembrava opportuno che fosse.

Mutarono le cose – che erano le stesse –

La ripetizione dell’umore

volgendo all’imprevisto

vide gli oggetti farsi umani

–sembrare che una pena li turbasse

o una gioia repentina –

Fu che un mattino il viale parve abbandonato

l’aia più deserta.

Per la prima volta si destarono inversi l’anima e le cose.

L’una pietrificò

lastrico e muri ricordarono

e nelle crepe fiorirono violette.”

Il dolore dell’impermanenza, lo scenario pandemico e i ricordi custodiscono le tracce, le contraddizioni e le inversioni dello sguardo: l’umanità delle cose e la pietrificazione dell’anima.

La cecità del canto: “occhi come labbra” verso “l’indicibile”

Uno stare di alberi subisce “l’imprevisto / l’impotenza / la trasformazione”, ramifica e moltiplica i tentativi di una mappatura identitaria, dove l’io, di volta in volta, cerca di delinearsi mediante il confronto con l’Altro, il dialogo sorgivo e accecante con i vivi e i morti.

“Il nero totale è nel fissare

una luce alla sorgente.

Poiché ti amo vita / più dei miei occhi

ora sono cieca / e null’altro vedo

che il retro delle cose.

Un vetro accecato dalla brina

la guida allo sbando

i cari vivi e i cari morti

che si affidano a me

figlia di tutte le tempeste.”

I versi di Cerro sentono e portano all’estremo il binomio omerico cecità – canto, penetrando nella profonda e sofferta ricerca di una “lingua” in grado di dare “nome” e presenza:

“Rendimi esperta del sentire più profondamente.

Forzare la lama

perdere gli occhi / fino alla visione.

Dare un nome a tutto questo

perché solo ciò che ha nome / esiste e vale.

Ha diritto alla nascita

ciò che è battezzato dalla lingua.”

Ma, esattamente come la morte, la parola, “lancia e scudo” all’interno di “vite analfabete”, non può stare a fianco dell’“anima sola” e smarrita. Davanti ai volubili “giuramenti del vento”, la “lingua” vacilla: il “tacere” resta la vera cieca veggenza. La ferita aperta dell’“indicibile” si rivela in uno specchio bianco, lo spazio abissale del nulla e del germoglio di una promessa.

“Una voce dalla bocca bianca

come dire “pura” e senza segni

che intenda ciascuno a modo suo perfetto.

Occhi come labbra

orli di un pozzo che è l’abisso umano…”

Tra labirinti e filigrane, in una “foglia erosa” il “gioiello” della “tristezza”

Un senso di compiutezza sembra risiedere in un’armonia di opposizioni tanto radicali da coincidere, in “una stagione a misura della vita”: l’accettazione di un respiro possibile solo con l’ombra, “perché la salvezza / passa sempre da uno che non si accorge di morire”.

E proprio l’elemento naturale offre una prospettiva di forza, suggerisce nel disegno di una “foglia erosa” la preziosità del dolore, il “gioiello” della “tristezza”.

“Così profondamente / o più lieve

come una foglia erosa

la cui filigrana in trasparenza

d’un gioiello costoso evoca la foggia.

Come una pioggia leggera

o certi veli di sposa

tale e impalpabile cala la tristezza.

Ed io vorrei a volte essermi madre

darmi una carezza / smettere il rifiuto

di un’attenzione / un gesto

e persino di una bella parola

sentire sul capo come un peso.”

Tra labirinti e filigrane, la voce poetica invoca un segno materno dentro se stessa, un gesto d’amore incondizionato nella diversa luce di ogni giorno.

In un fluire inarrestabile, gli “scheletri” dei fiori possono stringersi a una “lanterna forata”, filtrare raggi nuovi affinché la morte e la paura siano circoscritte all’invenzione di parole fra altre. La cognizione del bene guarda e trasfigura la prigione dell’anima attraverso il caleidoscopio dell’universo:

“Dei gerani ridotti a scheletri piegati

alcuni restano vivi

e stretti alla lanterna forata

che manda dal fregio luce arabescata…”