Fonte foto: blog.giallozafferano.it
La festa del papà si festeggia in tutto il mondo e, apparentemente, da almeno 4000 anni, a voler dar credito al racconto secondo cui il primo messaggio di auguri al proprio genitore risalga ad una piastra d’argilla babilonese. Non in tutto il mondo, però, questa festa cade nella stessa data: mentre in molti paesi è la terza domenica di giugno, in Italia (insieme a Spagna, Portogallo e pochi altri) coincide con il giorno di San Giuseppe, che è un bel modo per celebrare simbolicamente la paternità ad ampio spettro, al di là di quella strettamente biologica; a volte siamo avanti anche quando non abbiamo necessariamente coscienza di esserlo.
Uno dei modi più classici di festeggiare il 19 marzo, quantomeno nel sud Italia, è preparando un dolce che al solo guardarlo viene l’acquolina: le zeppole di – non a caso – San Giuseppe. Ma cosa lega queste golose frittelle ripiene di crema pasticcera, sormontate da un’amarena sciroppata e spolverate di zucchero a velo, al giorno della festa del papà?
Storia e leggende
Molte e differenti sono le leggende che narrano l’origine dell’associazione tra questo delizioso peccato di gola e il santo protettore dei papà.
La prima risale all’epoca romana: secondo questa ricostruzione, dopo la fuga in Egitto con Maria e Gesù, San Giuseppe si ritrovò costretto a vendere frittelle per mantenere la famiglia in terra straniera. Resoconto che spiega il motivo per cui, tradizionalmente, San Giuseppe sia il patrono, oltre che dei falegnami, anche dei friggitori. Durante questa giornata, infatti, c’era l’usanza, diffusa in particolare nel napoletano, di festeggiare il santo allestendo banchetti davanti alle botteghe per friggere e servire le zeppole per strada (i famosi “zeppolari di strada” che fino a qualche anno fa riempivano i vicoli della città il 19 marzo). Lo stesso Goethe in “Viaggio in Italia” descrive questa consuetudine in voga a fine 1700 nel capoluogo partenopeo e, secondo altre prove, risalente già al 1400, all’epoca dei Viceré.
La versione più pagana di questa leggenda vede l’origine delle zeppole di San Giuseppe nei riti di purificazione che si tenevano la vigilia dell’equinozio – il 19 marzo, appunto – e che consistevano, oltre che in grandi falò composti dai residui del raccolto di frumento precedente, nella preparazione di enormi quantità di frittelle cotte in strutto o in olio bollente. Come modalità di purificare, in particolare il proprio sistema cardiovascolare, si potrebbe obiettare, ma in quanto a festeggiare adeguatamente la fine dell’inverno, non si può dire nulla.
Altre varianti della storia vedono un più concreto apporto di Gesù nella creazione di questo dolce prelibato – probabilmente perché, chi l’ha assaggiato, non ha potuto fare a meno di ritenerlo divino. In un racconto spesso narrato dalle mamme ai bambini in Meridione, un Giuseppe affranto per non avere nulla da offrire da mangiare ad un vecchio mendicante, viene aiutato da un piccolo Gesù che trasforma i trucioli e i pezzetti di legno per terra in ciambelle, pani fragranti e deliziose zeppole.
In un altro svolgimento della storia, non troppo lusinghiero verso le doti culinarie di Maria, Gesù bambino deve ricorrere ad un miracolo per salvare la madre dall’ennesimo fallimento in cucina e farle fare il figurone di aver preparato lei da sola “zeppoloni di pasta bignè ben guarniti di crema e amarena” per un Giuseppe alquanto incredulo visto lo spettacolare risultato.
Anche riguardo alla tipica forma, a serpente arrotolato, sembra ci sia uno “zampino sacro”: a sentir Goethe, bisognerebbe ringraziare le monache dello Splendore e della Croce di Lucca, o le monache di San Basilio del Monastero di San Gregorio Armeno che, a partir dalla metà del 1700, avrebbero utilizzato un “puntuto di legno” per pungere la pasta bignè durante la frittura e farla vuotare. Stesso procedimento viene indicato dal primo che ha messo per iscritto la ricetta delle zeppole di San Giuseppe, il celebre gastronomo napoletano Ippolito Cavalcanti, Duca di Buonvicino, autore del libro di piatti tradizionali napoletani “Cucina teorico-pratica”, del 1837.
Se volete cimentarvi anche voi, ecco una versione più recente (e non in dialetto partenopeo) della ricetta.
La ricetta
Per prima cosa, volendo accingersi in quest’opera, bisogna accettarne le conseguenze: la zeppola al forno è un’eresia, perché le “vere” zeppole sono fritte, prendere o lasciare. Certo, potrebbe non essere il piatto più salutare sulla faccia della terra, ma basta guardare un’altra volta le foto per capire che val ben la pena il peccato di gola.
Messa a tacere la parte Grillo Parlante della vostra coscienza, procuratevi:
- 1/2 litro di acqua
- 400 g. di farina
- 6 uova (ve l’ho detto, il colesterolo sale anche solo a leggere gli ingredienti!)
- 75 g. di burro e il classico e non meglio specificato pizzico di sale.
Per la crema pasticcera, seguite la ricetta standard avendo l’oculatezza di prepararla per prima, in modo che sia fredda quando la pasta bignè sarà pronta. Importante: non finitela a furia di assaggi, vi serve per dopo!
Versate in un tegame abbastanza grande l’acqua, il burro tagliato a pezzetti e il pizzico di sale, chiedendovi se sarà un pizzico troppo o un pizzico troppo poco. Accendete a fuoco medio, girando con il mestolo, e, appena il burro si scioglie, andando in ebollizione, abbassate la fiamma e incorporate la farina a pioggia, possibilmente non per tutta la cucina. Mescolate per 5 minuti a fuoco lentissimo: quando il composto sarà sufficientemente solido da staccarsi dalle pareti del tegame, potrete spegnere il fuoco e versarlo (il composto, non il fuoco) in una ciotola. Incorporate le uova ad una ad una, c’è chi dice quando la pasta si sarà raffreddata, c’è chi non lo indica, a voi la scelta.
Se avete ben seguito le precedenti fasi e siete più dotate di Maria in cucina, dovreste aver ottenuto un composto dalla consistenza sufficientemente fluida e cremosa da entrare in una sac-à-poche con imboccatura a stella. A questo punto è il momento di esibirsi in prodezze degne di Giotto e creare cerchi di impasto a doppio giro, uno sull’altro, se ce la fate di diametri regolari (se no è uguale, via, chi andrà mai a misurarli?). Ponetele su della carta forno e tuffatele in seguito in olio a temperatura (secondo alcuni meglio utilizzare due padelle, prima una con olio meno caldo per gonfiarsi, poi quella con olio bollente per dorarsi, ma qui stiamo davvero sfiorando il professionismo estremo).
Sgocciolatele su carta assorbente e, una volta raffreddate, tagliatele a metà e farcitele con la crema pasticcera (rimasta) e con l’amarena sciroppata al centro per il tocco finale. Et voilà, il vostro dolce perfetto per San Giuseppe è pronto, senza bisogno di miracoli!
Se siete particolarmente orgogliose del risultato e riuscite a non sbranarlo prima di aver fatto una foto, postatela sulla nostra pagina Facebook per fare ammirare a tutti il vostro capolavoro!
Scrivo da sempre. Da quando ancora non sapevo farlo, e scrivevo segni magici sulle tende di mia nonna, che non sembrava particolarmente apprezzare. Da quando mio nonno mi faceva sedere con lui sul lettone, per insegnarmi a decifrare quei segni magici, e intanto recitava le parole scritte da altri, e a me sembravano suoni incantati, misteriosi custodi di segreti affascinanti e impenetrabili, che forse, un giorno lontano, sarei riuscita a comprendere e che, per il momento, mi limitavo ad assaporare sognante. Sogno ancora, tantissimo, e nel frattempo scrivo. Più che posso, ogni volta che posso, su ogni cosa mi appassioni, mi incuriosisca o, più semplicemente, mi venga incontro, magari suggerita da altri.
Scrivo per Hermes Magazine e per altri siti, su vari argomenti, genericamente raggruppabili sotto il termine di “cultura“. Scrivo anche racconti, favole, un blog che piano piano prende forma, un libro che l’ha presa da un po’ e mi è servito a continuare a ridere anche quando tutti intorno a me sembravano impazzire (lo trovate ancora su Amazon, mai fosse vogliate darmi una mano a non smettere di sognare).
Scrivo perché vorrei vivere facendolo ma scriverò sempre perché non riesco a vivere senza farlo.
Scrivo perché, come da bambina, sono affascinata dal potere di questi segni magici che si trasformano in immagini, in pensieri, in storie. E, come da bambina, sogno di possedere quella magia che permette loro di prendere vita dentro la testa e nell’immaginazione di chi li legge.