Fonte foto: Elisa Nanini
Le nuvole, lo sguardo e il velo
Le nuvole, macchie bianche isolate nell’azzurro, pennellate lungo la corsia del tramonto, grigiori impenetrabili e sipari sugli astri, stimolano in chi le guarda un continuo tentativo di lettura del cielo. Illusioni ottiche, offuscamenti e metamorfosi tramandano nei secoli lo stupore dell’infanzia e la domanda dell’oltre.
Nelle culture occidentali e orientali sono tradizionalmente associate, con le dovute specificità, al velo e al mistero. Ora nel ruolo di fugaci schermi protettivi, ora dimore celesti, ora figura del divino stesso, ora pensiero, le nubi sono l’immagine di qualcosa che sta al di là dell’umana comprensione. L’irraggiungibile si plasma, di volta in volta, nell’umoralità del meteo, nei segni cangianti che fluttuano sulla tela quotidiana.
Canti, miti, preghiere e poesie coltivano il bisogno di un dialogo col trascendente, ricercando istintivamente un collegamento tra messaggi e forme. Ne è un chiaro esempio il Canto della Notte dei Navajo (popolo nativo americano degli Stati Uniti sudoccidentali): nel corso di un’invocazione anaforica di fenomeni naturali connessi a processi di nascita e crescita, i Navajo instaurano un contatto con le nuvole, in un augurio di pace e prosperità. Riconosciute nella loro sacralità, parti fondamentali del “cammino” della vita, le “grandi nuvole cariche d’acqua” contribuiscono alla trama di “bellezza” e “armonia” che anima il mondo, donando fertilità e placando la sete.
“Con il cuore colmo di vita e di amore camminerò.
Felice seguirò la mia strada.
Felice invocherò le grandi nuvole cariche d’acqua.
Felice invocherò la pioggia che placa la sete.[…]
Che la bellezza e l’armonia siano ovunque,
sul mio cammino.
Nella bellezza e nell’armonia tutto si compie.”
“La nuvola” parlante di Shelley
Il punto di vista umano accusa lo scarto tra cielo e terra.
Ma se le nuvole stesse potessero parlare? Interessante è il ribaltamento prospettico attuato dal poeta romantico Percy Bysshe Shelley (Horsham, 1792 – Viareggio, 1822). Nell’ode La nuvola è proprio la nuvola, in prima persona, a far irrompere la sua mutevolezza, attraverso contrasti e similitudini folgoranti. Di seguito, alcuni versi tratti dalla traduzione di Roberto Mussapi, in KEATS, SHELLEY, BYRON: I ragazzi che amavano il vento (Feltrinelli 2020):
“…Cingo il trono del sole con una fascia incendiata
e quello della luna con un filo di perle,
e quando il turbine spiega il mio vessillo
i vulcani sono spenti e le stelle oscillano.
Da un capo all’altro gettata come un ponte,
su un mare torrentizio, impermeabile al sole,
resto sospesa in alto, come un tetto,
uniche sue colonne le montagne…”
“Fascia incendiata” o chiarore perlaceo, la nuvola è spirito avvolgente: “sospesa in alto, come un ponte” e “come un tetto”, è per chi l’ammira tramite e, insieme, copertura della visione.
Consapevole dei suoi infiniti transiti e trasformazioni, la nuvola non manca di ironia: instabile e immortale, un po’ terrena e un po’ celeste, gioca in eterno con una dimensione di confine, pronta a fare capolino dall’azzurro più nitido “come un bambino dal grembo o uno spettro dalla tomba”.
“…Sono la figlia dell’acqua e della terra,
e la pupilla del cielo,
traverso i pori dei mari e delle spiagge,
mi trasformo, ma non posso morire.
Perché dopo la pioggia, quando immacolata
e nitida è la volta del cielo,
e i venti e i raggi del sole coi loro convessi bagliori
alzano la cupola azzurra dell’aria,
io rido silenziosa a questo cenotafio,
e come un bambino dal grembo o uno spettro dalla tomba
esco dalla caverna della pioggia,
e lo distruggo ancora.”
Le nuvole e il “nodo sciolto”: la poesia “Le parole” di Cappello
Un antico e paradossale legame nella distanza, un “nodo sciolto”, sembra definire il rapporto tra le nuvole, l’uomo e le parole. La poesia Le parole del poeta friulano Pierluigi Cappello (Gemona del Friuli, 1967 – Cassacco, 2017), contenuta in Stato di quiete (Rizzoli 2016), costituisce una sorta di favola delle parole, a partire dalle nuvole e dai ricordi:
“Annodammo la nostra infanzia ai capelli delle nuvole
e non fu la pioggia, fummo la pioggia;la mano dell’uomo ci sradicò dall’aria
e lungo i canyon della nostra pelle
attecchì il pensiero;le nuvole furono scrittura,
la nostra voce un nodo sciolto,
noi da una parte, da un’altra parte il cielo.”
Personificate, le nuvole, con i loro “capelli”, costituiscono l’ancoraggio dell’infanzia e, contemporaneamente, la discesa di pioggia e vita. La “mano” umana e terrena che ci sradica “dall’aria” evolve il nostro sguardo verso le nuvole, rendendole scrittura.
Lungo la scia del distacco sentiamo crescere il “pensiero” dalla nostra “pelle”: “la nostra voce” diventa il riverbero della mancanza, “noi da una parte, da un’altra parte il cielo”.
Laureata in Lettere moderne all’Università di Bologna, collaboro con il Poesia Festival e sono redattrice di «Hermes Magazine» e di «Laboratori Poesia». I miei versi sono stati selezionati nello spazio La bottega di Poesia de «La Repubblica» (Bologna, maggio 2019), nell’Almanacco «Secolo Donna 2022» (Macabor Editore 2022), in vari concorsi poetici e per riviste on line. Nel 2020 ho pubblicato la mia prima raccolta di poesie, Cosa resta dei vetri (Corsiero Editore), e nel 2023 ho curato l’antologia Il grido della Terra (Macabor Editore).