L’autunno attraverso giardini e poesie

Fonte foto: Elisa Nanini

La poesia dei giardini autunnali

Il fascino dei giardini d’autunno è indiscusso: varcare cancelli, ammirare l’incendio dei colori sui rami, poi sulla terra, mentre l’aria, per contrasto, si raffredda, di giorno in giorno, su panchine vuote. Questa stagione ha ispirato i poeti di ogni epoca e nazione, lasciandoci nella contraddizione di una natura sospesa tra vita e morte. Luoghi all’aperto ma recintati e quotidiani, i giardini nel loro percorso di metamorfosi dettano infatti versi che non possono esaurirsi in un mero cammino dello stupore per mezzo dei sensi.  Nel bilico delle foglie c’è la profezia dell’uomo, l’affondo di una domanda esistenziale che ci costringe, negli scorci di finestre e passeggiate, a scrutare un movimento di caduta e rinascita. Stagionalità e ciclicità entrano inevitabilmente in relazione con le tappe umane, dalla giovinezza alla vecchiaia, calandosi in un racconto dell’esperienza individuale e collettiva. Microcosmi, i giardini poetici autunnali animano a pieno titolo un tòpos letterario, riflettono nelle loro isole equilibri delicatissimi, dove gli ultimi splendori si intrecciano con malinconia, perdita e solitudine.

autunno

Attraversiamo quindi alcune di queste poesie/giardino per cogliere la varietà prospettica di una tavolozza cromatica che, come scrive il pittore Vincent Van Gogh nella lettera del 25 settembre 1888 al fratello Theo, rende la ricerca infinita:

“Finché dura l’autunno, non mi basteranno mani e colori per dipingere le cose belle che vedo.”

Bellezza e impermanenza: Matsuo Bashō e Rainer Maria Rilke

Sin dall’antichità, in Giappone il giardino incarna non solo una visione puramente estetica, ma una visione di vita, sobria e armonica: lo sguardo sull’elemento naturale si lega alla sfera religiosa, in un invito alla meditazione e al raccoglimento. Interno ed esterno, uomo e natura, soggettività e oggettività si incontrano nell’atto contemplativo.

Lo haiku di Matsuo Bashō (Ueno, 1644 – Ōsaka, 1694), per esempio, illumina con istantanea icasticità l’autunno avanzato nel giardino del luogo di culto:

“Foglie cadute

nel giardino del dio,

trascurato nell’assenza.”

Le “foglie cadute” costituiscono il chiaro riferimento metonimico alla stagione autunnale, il kigo. Con asciuttezza e semplicità, in pochi versi il poeta immortala un quadro di desolazione e abbandono. Questa immagine umile e abituale di impermanenza fogliare abbraccia il pensiero zen e il concetto di wabi-sabi: una bellezza imperfetta, profonda nella sua modestia, supera la vanità delle apparenze. Ecco allora la consapevolezza e l’equilibrio, l’accettazione serena dei segni temporali sulla soglia del divino e dell’eterno.

La bellezza malinconica della caduta trova riscontro anche nella poesia Autunno di Rainer Maria Rilke (Praga, 1875 – Montreux, 1926), contenuta nel Libro delle immagini (1902):

“Le foglie cadono da lontano, quasi

giardini remoti sfiorissero nei cieli;

con un gesto che nega cadono le foglie.

 

Ed ogni notte pesante la terra

cade dagli astri nella solitudine.

 

Tutti cadiamo. Cade questa mano,

e ogni altra mano che tu vedi.

 

Ma tutte queste cose che cadono, Qualcuno

con dolcezza infinita le tiene nella mano.”

La similitudine tra foglie cadenti e giardini celesti che sfioriscono traccia una linea verticale firmamento-terra, aprendo un varco al trascendente.   Da una lontananza siderale, il mondo continuamente appassisce, piomba nella “solitudine”. Una successione di cadute risillaba l’autunno del vivente e del visibile, dal vegetale sino all’umano. Ma nel distico finale questo insistito precipitare viene raccolto nell’immensa mano di tutte le mani, quella di Dio, creando una struttura ad anello con i “giardini remoti” dei primi versi: il mutamento e la perdita sono i tasselli di un più grande disegno provvidenziale.

Scrivere nel giardino d’autunno: Adam Zagajewski

La quiete e il silenzio dell’autunno accendono immagini di trasformazioni corporee, ci parlano di passaggi. E proprio per questo motivo i giardini sono anche una sede privilegiata per scrivere, grazie alla loro dimensione intima e protettiva. La poesia Attendi il giorno autunnale del poeta polacco Adam Zagajewski (Leopoli, 1945 – Cracovia, 2021), tratta dalla raccolta Le antenne (2005) e inserita nell’antologia Guarire del silenzio (Mondadori 2020), sembra riproporre il motivo dell’angulus oraziano, accogliente ritaglio di spazio e riflessione.

In un’atmosfera di sospensione, nella terza terzina il poeta colloca l’attività di scrittura in un crocevia di attese: attesa del giorno, attesa della stagione e attesa della morte. Così le incisioni che solcano le foglie di rughe non sono altro che l’albero della vita dei nostri palmi, l’adempimento di un destino.

“Attendi il giorno autunnale, attendi il sole

ormai un po’ stanco, la polvere nell’aria,

il tempo del giorno pallido.

 

Attendi le ruvide, marroni foglie dell’acero

incise qua e là come le mani di un anziano,

attendi i castagni e le ghiande,

 

la sera in cui ti siederai col taccuino d’appunti

nel giardino e il fumo del focolare avrà

l’inebriante sapore dell’inattingibile sapienza.

 

Attendi il pomeriggio più breve del respiro di un atleta,

l’armistizio fra le nuvole,

il tacere degli alberi,

 

l’attimo in cui raggiungerai la pace assoluta

e ti rassegnerai al pensiero che ciò che hai perduto

l’hai perduto per sempre.

 

Attendi il momento in cui forse non proverai più

nemmeno il desiderio di rivedere coloro che hai amato

e che non ci sono più.

 

Attendi il giorno chiaro e alto,

l’ora senza il dubbio né il dolore.

 

Attendi il giorno autunnale.”

 

Il “giorno autunnale” non è quindi unicamente sentore della caducità, ma concilia in sé gli estremi di fine e inizio, è uno sguardo di pace sul dolore con forza di svolta e rinnovamento.