La cucina ligure ha tradizioni antichissime, sempre legate ai frutti della terra. Alle erbe, ai prodotti degli orti, alla coltivazione dell’ulivo. Una di queste ricette che si perde nella notte dei tempi è costituita dai testaroli o, in dialetto, “Testajeu” (testaiò), una pietanza che possiede diverse versioni nella provincia di Genova, nello spezzino e nella vicina Lunigiana, i cui contenitori sono stati trovati anche nelle necropoli liguri del Neolitico.
La preparazione nel genovesato è quasi un rito primigenio: si utilizza una serie di recipienti rotondi e piatti, con i bordi leggermente rialzati di circa 15 cm di diametro, fatti di polvere di manganese compattata. Vengono posti su un fuoco vivo di un falò o di un caminetto affinché diventino incandescenti. A questo punto, tolti dal fuoco, si riempiono con una semplice pastella di farina, acqua e sale e si impilano l’uno sull’altro, affinché la pastella si cuocia velocemente all’interno, diventando una sottile focaccina. Le crépes così ottenute vengono poi bagnate per ammorbidirle, condite con olio e formaggio grana o con pesto e di nuovo impilate in piccole torri, tagliate a spicchi e naturalmente mangiate. Il gusto possiede il sapore remoto del fuoco e dei prodotti della terra.
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Lo spezzino
Diversa è invece la ricetta della provincia spezzina, dove prendono il nome di panigacci : l’impasto di base è praticamente lo stesso composto dei testajeu, ma la cottura nel forno a legna avviene singolarmente dentro piattelli di ghisa con un coperchio. Successivamente la “piadina” ottenuta non viene bagnata ma condita a caldo con olio, pesto o pomodoro.
In Lunigiana
Ritroviamo invece il nome “testaroli” nella tradizione Lunigiana dove però le crepés sono molto più grandi (circa 25 cm di diametro) e meno spesse, cotte sul fuoco vivo con una specie di padella apposita. Nella cucina lunense vengono poi tagliate a rombi e scottate in acqua bollente per preparare un primo piatto da condire con sugo di cinghiale o salse verdi.
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Tre declinazioni differenti di un piatto atavico che nei secoli ha deliziato il palato delle genti di queste terre che hanno perpetrato e rinnovato la tradizione.
Dopo aver seguito studi artistici si interessa appassionatamente ad approfondire i meccanismi e l’evolversi della storia dell’arte contemporanea.
Proprio in qualità di critico d’arte e corrispondente, negli anni ’80 e ’90, ha firmato saggi e recensioni per alcuni dei maggiori periodici del settore, tra i quali: Terzoocchio delle edizioni Bora di Bologna, Flash Art di Milano Julier di Trieste ed il genovese ExArte .
Inoltre affiancherà attivamente come consulente la famosa galleria d’Arte avanguardistica Fluxia durante tutto il periodo della sua esistenza.
Ha partecipato all’organizzazione di numerosi eventi, tra i quali l’anniversario del centenario dell’Istituto d’Arte di Chiavari e la commemorazione del trentennale della morte del poeta Camillo Sbarbaro a S. Margherita L.
Nel 2010 pubblica il suo primo romanzo: “La strana faccenda di via Beatrice D’Este”, un giallo fantasioso e “intimista”.
Nel 2018 pubblica il fantasy storico “Tiwanaku La Leggenda” ispirato alla storia ed alle leggende delle Ande pre-incaiche.
Attualmente collabora con alcuni blog e riviste on-line come “Chili di libri, “Accademia della scrittura”,
“Emozioni imperfette”, “L’artefatto”,” Read il magazine” e “Hermes Magazine” occupandosi ancora di critica d’arte e di recensioni letterarie.