Ufficio del sole. Giusi Busceti

“Ufficio del sole”: Giusi Busceti

Fonte foto: Nino Rubino

Innaffiare la vita con la luce: Ufficio del sole

Ufficio del sole (Stampa 2009 2022) di Giusi Busceti è un’opera dove la poesia assume un compito di luce verso la memoria personale e collettiva.

Ufficio del sole. Giusi Busceti

Attraverso una scrittura densa e magmatica, i gesti semplici ma rituali della casa si intrecciano con le lacrime dell’esistenza, in una geografia dei ricordi che si estende da Milano alla Calabria. La responsabilità della sopravvivenza si lega a un prendersi cura del vuoto, mentre la danza delle gocce diventa dialogo col mondo e inchiostro.

Da Atletica:

“1.

Gli asciugamani

non sono danneggiati, giallo i colori

così mia madre con la voce alle porte

con la radio agli albori: io sono dedicata

al millenovecentocinquantanove,

col rapido pulviscolo nel sole

e se un mondo parla allora scrivo,

se lei crede che possiamo irrigare.”

Il pensiero irriga lo scorrere del tempo, trova nei tessuti ingialliti lo spiraglio del ritorno. La mancanza apre finestre sull’attesa, sente un battito oltre il visibile, senza però tradire l’umile costellazione degli oggetti.

Da Innaffiatoio:

“…Qualcosa sfugge dunque all’ostinato

passivo dei miei calcoli. Non tornano

davanti all’evidenza che c’è coloratissimo

un ritorno: prima, vera e potente la feconda

stagione della mia fatica se ne infischia

e dal fondo succhia ridente al mio estenuato

innaffiatoio inconsapevole l’istinto

a non lasciarmi rovinare. Cosicché

mi ritrovo dai germogli e dai fiori

ad apprendere più forte dell’amaro

che mi spinge l’amore irrigatore

ben oltre quel ch’io ne voglia sapere.”

Nella tensione semantica di “amaro”“amore”, l’insegnamento spontaneo di “germogli” e “fiori” mostra con l’affermazione della vita una dichiarazione di poetica, un movimento di rinascite e metamorfosi dentro un mistero troppo grande.

Il giardino tra musica e perdita

“Di te è il giardino ad abitarmi”: la perdita si stringe al tòpos letterario del giardino, isola armonica che accoglie gli estremi di distacco e continuità, in uno scambio crescente tra sguardo esteriore e interiore.

In particolare, la poesia che porta il titolo della raccolta, Ufficio del sole, si affaccia “sul giardino di questo non / illeso di luce e pianto mondo / in perdita”, offrendo ai ricordi una promessa nell’“alba”:

“Sono tornata per gli occhi di altri

alla panca donata a ogni gente, qui

da otto secoli per innumerevoli

finestre sottovolta: faremo, è vero, dunque?

Cinque, sei settecento

noi tavola per sempre?

Di pane e di qualsiasi

bellezza riunita e lasciata, o distolto

sguardo e in comune, lode all’alba,

vita che ruota, voi noi, volteggio

senza pausa, vita

ricolma di tutto ciò che chiederete, voi

inchinati e ordinati dal sorriso,

regola del sole. Da un terrazzino

sospeso sul giardino di questo non

illeso di luce e pianto mondo

in perdita, scala

in tre nodi intrecciata, gettata

come si esulta, lingua appena nata

e gaia, altalena, tavola,

panca qui che sul baratro ci culla, è

povertà che ci nutre: qui,

ritornati ci addormenteremo.”

Una “lingua appena nata” riscopre e custodisce “per gli occhi di altri”. Lungo la “scala in tre nodi” della vita (“altalena, tavola, / panca”), i momenti di condivisione trascorsi trascinano i versi in una musica vertiginosa “che sul baratro ci culla”.

La voce delle “ali abbandonate”: Noi risorti

Il percorso di luce e memoria culmina nell’ultima sezione Noi risorti, dedicata a Giovanni Busceti.

Nella tragica coesistenza di bellezza e sangue, una dimensione tellurica scava dentro la profondità di una terra ferita, mentre la narrazione familiare allarga il respiro a una storia di risorti.

Dalla poesia 70’s Flowers:

“…Noi del Tirreno, voglio dire

noi invece,

mari profondi e forti

terremoti spartiacque,

versi alleati al sangue

alla testa d’insorti

tra grano agrumi e pietre

d’aspro monte. Noi risorti.”

La solarità aspra degli agrumi nutre il dolore e la forza di chi resiste. Un “terremoto nelle vene che / arancio e cupo fuoco fa del cielo” rinnova un messaggio d’amore dalle ceneri. Di fronte alla morte, il suono terribile del “niente” non lascia spazio all’oblio, diventa “un coro sotto il greto / di sassi”. La poesia, voce delle “ali abbandonate”, rigenera e si rigenera attraverso l’eco degli assenti.

Così nell’intensa Ballata del 5 aprile, che rievoca l’assassinio di Giovanni Busceti (1959), lo sparo e la caduta non fermano il ricordo e il sogno. Un orizzonte di diritti e “aranceti fino al mare” lascia in eredità un raggio proteso in “avanti”, le braccia aperte:

“…Non ti fermi: avanti.

Gli vai incontro, tu

non hai ancora quarant’anni

e sotto terre prima di te

private, hai visto il sogno:

scorrere l’acquedotto a ogni cucina

di madri e pecorari.

Ora è un bagliore

aprile in mano sua, ma controsole

vedi solo aranceti fino al mare,

scuola per tutti e come la fiumara

il Quarto Stato accede al Parlamento.

Apri le braccia: è un figlio del paese,

a tanti hai insegnato Osate sempre.

Maravigliosamente un azzurro potente

vi avvolge a mani tese l’uno all’altro.

Spara. Cadi.

Ma non ti sei fermato.”